Un dono d'amore sotto l'ombrellone


Molti adulti sono dei bravi favolisti senza nemmeno saperlo; basterebbe che aprissero i cancelli della fantasia ed entrerebbero nel magico mondo dell'infanzia. Un dono stupendo e un'occasione per il divertimento di grandi e piccini, è quello di inventarsi cantastorie per un giorno. E creare, lì per lì, una fantastica avventura per i vacanzieri in erba, vicini di ombrellone. In breve tempo, una minuscola folla si avvicina... timidamente... quasi in punta di piedi, e ci si ritrova circondati da tante piccole anime che ascoltano con le bocche aperte in un silenzio quasi mistico. Un'esperienza bellissima che ho sperimentato molte volte. Gli altri genitori possono fare il bagno tranquilli, oppure rilassarsi un poco, ed è bello poi scambiare le parti. Tuttavia, aspettatevi qualcosa di insolito: accanto ai piccoli, seduti sulla sabbia, arriveranno anche nonni, fratelli maggiori, zii e altre mamme e papà, si siederanno ad ascoltarvi rapiti e torneranno bambini. Non è meraviglioso?


La spiritualità dei bambini




Prendersi cura di un bambino è un privilegio e al tempo stesso un grandioso compito, affidato a genitori, nonni e insegnanti .
Queste piccole, straordinarie creature, sono tuttavia patrimonio dell'intera comunità.
Ogni adulto è per loro un modello e un esempio, il vicino di ombrellone in spiaggia come il gelataio, la mamma del compagno di banco come il meccanico di fiducia del papà.
Ogni adulto, accanto a un fanciullo, deve  camminare in punta di piedi; essi sono come teneri fili d'erba sui quali non vanno lasciate impronte ma solo orme di percorsi che conducono alla bellezza e all'armonia.
Di queste qualità è fatto il mondo che hanno da poco lasciato per giungere qui, di armonia e bellezza. Preoccuparsi del giusto nutrimento perché crescano forti e sani è importante, ma del loro nutrimento spirituale ci si occupa a sufficienza? E cos'è il nutrimento spirituale?
L'anima dei bambini ne è affamata, come anche quella degli adulti, che però hanno bisogno di un doloroso percorso di recupero per riappropriarsi dell'innocenza e della verità perdute.
E' quindi vitale far sì che ai piccoli non venga tolto questo patrimonio.
Il nutrimento spirituale è permettere loro di non dimenticare la matrice divina, il grembo di luce del quale sono realmente figli.
E' lasciarli esprimere quella magia nella quale credono, o meglio della quale non hanno ancora dimenticato completamente il potere.
Perché crescano con una solida fiducia in se stessi, devono interpretare il mago e la fata che sono davvero; allora materializzeranno sogni, diverranno artefeci di gloriosi destini, paladini di una nuova era, il nuovo popolo di una umanità risvegliata.
L'atto d'amore più poetico che un adulto può offrire a un bambino è quello di leggergli una fiaba.
Le favole di qualità sono portali fatati che conducono alle dimensioni dello spirito, ponti alchemici per la conoscenza perduta.
L'essere umano è uno stregone e un creatore, e se un adulto possedesse ancora la visionaria attitudine di un bambino, tra le sue mani avrebbe la bacchetta magica della felicità.

Le magiche avventure di Ben - 2. La fata Amistad

Nella prima puntata avevamo visto Ben incontrare lo Gnomo Bellissimo. Potete rileggerla a questo link oppure scorrere velocemente il seguente riassunto.

(Riassunto puntata 1)
Tutto era iniziato in un fresco pomeriggio di marzo, quando Alfredo, il papà del piccolo Ben, aveva deciso di comprare per il figlio un nuovo libro di favole. Sembrava un giorno come tanti, a parte l'eccitazione del bambino che non vedeva l'ora di accompagnare il padre per ricevere il regalo e tuffarsi in una nuova, appassionante lettura. L'automobile si era accesa gracchiando come sempre, e come sempre la mamma aveva salutato Alfredo e Ben dalla finestra, con addosso il grembiule da cucina e un mestolo in mano: stava preparando una delle sue solite, magnifiche crostate. Invece non si trattava affatto di un giorno come gli altri: durante il viaggio, padre e figlio erano stati sorpresi da un uragano violentissimo che li aveva risucchiati e poi sputati sopra una terra magica e sconosciuta. Mentre il papà dormiva, colto da un profondo e inspiegabile sonno, Ben era andato in cerca di aiuto, tutto solo in quel luogo bizzarro, popolato da creature sorprendenti... Infine, grazie all'aiuto di nuovi amici, tra cui gli gnomi, Ben era riuscito a entrare dentro un tunnel spazio-temporale e a raggiungere il suo mondo, ma uscendo dal tunnel si era ritrovato dentro la macchina, che ancora girava vorticosamente al centro dell'uragano.

 

LA FATA AMISTAD 

«Reggiti forte figliolo!» gridò il papà di nuovo sveglio, mentre l'auto veniva scagliata in aria a forte velocità, in quel cielo così rosso che pareva incendiato.
Dopo una serie di piroette e saliscendi, degni della più spericolata delle montagne russe, l'auto si schiantò al suolo in un fragore tremendo. Con il cuore in gola per lo spavento, Ben slacciò la cintura di sicurezza e si arrampicò per andare sul sedile anteriore, di fianco al papà, che grazie al cielo stava bene. Lo trovò addormentato come nella precedente avventura e con il medesimo sorriso sul volto. Allora prese a calci la portiera, che a causa della gran botta si era incastrata, e fece anche un salto acrobatico per scendere, perché la macchina era caduta in piedi, come un siluro.
Atterrò su di un soffice prato, ma era tutto buio, vedeva a malapena le sagome degli alberi. Come mai era scesa la sera tanto in fretta?



S'incamminò nella penombra, passo dopo passo, fermandosi a ogni più piccolo rumore, guardingo come un gatto. Avrebbe voluto avere accanto il padre in quel momento e non trovarsi tutto solo nelle tenebre, di nuovo alla ricerca di qualcuno che potesse aiutarlo.
Patapum! All'improvviso il suolo sotto ai suoi piedi venne a mancare: era finito in un precipizio e stava rotolando giù come un sasso.

«Ti sei fatto male?» una vocina sottile e dolce spuntò dall'oscurità.
«Dove sei? Non riesco a vederti» disse Ben mentre tentava di rialzarsi.
«Sono qui» rispose la vocetta, che ora sembrava più vicina e un po' piagnucolosa.
Allora Ben provò a scrutare nel buio e intravide una figurina piccola piccola: gli arrivava sì e no alle ginocchia. Era come una bambina in miniatura, ma con le orecchie a punta e due alucce trasparenti come ali di libellula.
«Tu chi sei?» chiese la creatura.
«Io sono un bambino, e tu?»
«Non lo so» rispose lei, e cominciò a piangere sommessamente.
«Non lo sai?» Ben era interdetto, oltre che intenerito da quel pianto.
«Non lo so! Non so più chi sono, l'ho dimenticato! Puoi aiutarmi?»
«C'è molto buio» rispose il bambino. «Tuttavia direi che sembri... una fata
«Ah già è vero! Sono una fata!» esclamò l'esserino.
«Aspetta» disse Ben che si era ricordato in quel momento di avere con sé il corredo da esploratore tascabile, il quale comprendeva una bussola per orientarsi, una lente d'ingrandimento per osservare gli insetti e accendere il fuoco (ebbene sì, per accendere un fuoco basta un raggio di sole e qualche foglia secca...), un coltellino multiuso, e una piccola, provvidenziale torcia. Quindi l'accese per guardare bene la fata.
«Non c'è dubbio, sei proprio una fata. E come sei carina!»
Non poté trattenere quell'esclamazione. Era davvero deliziosa, tutta verde come uno smeraldo, il viso dolcissimo e quelle ali talmente delicate da sembrare di cristallo. Inoltre luccicava, perché a ogni movimento diffondeva nell'aria una polverina dorata.



«Grazie». La fata sbatté gli occhioni timida e vanitosa al tempo stesso. Poi gridò squillante: «Magia!»
«Cosa?» chiese Ben che aveva fatto un salto per il grido inatteso.
«La luce!» disse lei.
«Ma no, è solo una torcia. Un piccolo congegno che serve per vedere al buio».
«Voglio dire che "io" so fare la magia della luce! Me ne sono ricordata grazie a te».
Wow! E sai fare anche il buio?» chiese Ben, oltremisura affascinato dalle questioni magiche.
«Non c'è bisogno di fare una cosa che non esiste, basta spegnere la luce!»
«Vuoi dire che non esiste il buio? Ma era buio un attimo prima che io accendessi la torcia!»
«Sì era buio, ma solo perché mancava la luce» rispose la fatina.
«La luce si può misurare: è fioca, brillante, intensa o abbagliante. Puoi forse, al contrario, misurare il buio? Non puoi, perché si tratta solo di luce che non c'è, o meglio, di luce al minimo possibile».
Ben si grattò la testa pensieroso. In effetti, quello che diceva la fata era proprio sensato.

«Guarda» riprese lei. «Una piccola luce annienta oscurità immense. È potentissima. Il buio, al contrario, non può mica spegnerla la luce!»
«E da dove viene? Chi l'ha inventata?» chiese il bambino.
«Il Creatore di tutte le cose, chi altri? Lui crea solo cose potentissime!» la fata lo disse con un bisbiglio, come un segreto rivelato.
«Questo tizio ha creato tutto, ma proprio tutto?»
Nella mente di Ben cominciavano a ribollire milioni di domande.
«Sì, tutto!» La creatura chiuse gli occhi e alzò le sopracciglia per assumere un'aria solenne e dare più vigore alla sua affermazione.
«Ma... allora non ha fatto solo cose buone. Ha inventato anche la malvagità! Era proprio cattivo il ladro che rubò la borsetta alla mia mamma l'anno scorso! Lei è una persona buona e generosa, non si meritava una cosa simile».
«No no, la cattiveria, non esiste. Il Creatore ha inventato solo l'amore. Il male è amore che non c'è!».

La fata guardò il cielo stellato, poi socchiuse gli occhi e respirò profondamente l'aria fresca della notte; era felice perché quando parlava dell'amore si sentiva parte di tutto l'universo.
«Un soffio d'amore asciuga le lacrime e fa spuntare il sorriso, scalda il cuore e scaccia la solitudine. Un pizzico d'amore guarisce tonnellate di dolore, cancella i pensieri tristi e porta allegria, scardina serrature arrugginite da secoli di rancore. Un cucchiaino d'amore basta a illuminare il buio del male più sconfinato. Ed è contagioso! Corre veloce come la luce, e come la luce si comporta».
Ben ascoltava rapito, ma faticava a comprendere.
«Non ha inventato nemmeno la malattia del mio vicino di casa? È così piccolo... soffre tanto e i suoi genitori piangono sempre!»
«No, non ha inventato la malattia. Esiste solo la salute, che qualche volta si affievolisce, come una luce che diventa più debole. E come arriva il buio quando la luce si nasconde, così arriva la morte quando si spegne la salute. Tuttavia la luce esiste ancora, ed è la stessa cosa per chi muore: esiste ancora, però altrove». «Davvero?» chiese Ben con ammirazione per tutte le cose che sapeva la fatina.

«Nel vostro mondo» continuò lei «per capire o misurare qualunque cosa, avete bisogno del suo contrario. Per esempio: come fai a sapere che il caldo esiste e come fai a misurarlo se non hai mai sentito freddo?»
«Forse ho capito!» esultò Ben.
«Il Creatore ha inventato solo cose buone, perché lui è luce, amore, salute, calore» concluse la fatina. «Ooooh!» i polmoni di Benvenuto soffiarono fuori un'espressione di profondo stupore.
Quella visione della realtà cambiava tutto, ed era così confortante e bella che sentì il petto accendersi improvvisamente di una fiamma strana e meravigliosa.

«Magia!» gridò nuovamente la fatina.
«Quale, adesso?» chiese Ben euforico.
«Il tuo cuore, si è acceso! Mi sono ricordata che so leggere dentro ai cuori!»
«Che bella magia è questa!» disse il bambino con una gioia incontenibile.
«Puoi farlo anche tu, è facile!»
«E come?» ora Ben aveva gli occhi sgranati.
«Basta leggere dentro alle persone! A proposito, che libro di favole vuoi comprare?»
«Come fai a sapere che voglio comprare un libro di favole?»
«Magia! Mi sono appena ricordata che so leggere anche il pensiero!» rispose la fata con un largo e buffo sorriso che scoprì la sua fila di dentini bianchi come perle.
«Wow! È così che mi hai letto nel cuore e nella mente?» chiese Ben affascinato, stupito, felicissimo, esaltato e altre mille emozioni tutte insieme che non avrebbe saputo descrivere.
«Sì, è così».

La fatina si era avvicinata a Ben e aveva cominciato a sbattere velocemente le ali, generando una luce bellissima e dorata.
«Spegni la torcia, non ce n'è più bisogno» aggiunse, e si librò nell'aria, brillante come una gigantesca lucciola. «Aspettami!» gridò Ben. «Io non so volare, non sono una fata, sono umano!»
«E dici poco? Siete esseri molto potenti, ma non lo sapete. Voi usate meno di un millesimo delle vostre reali capacità!» La fata parlava svolazzando davanti al bambino, mentre sprizzava scintille e pulviscolo d'oro.
«Qui sei nel regno della magia, dove tutto è possibile, pensalo, credici, e volerai» aggiunse.
Ben si fidava della piccola amica, inoltre lo aveva sempre pensato di essere un mago, quindi si concentrò sul volo, immaginò di sollevarsi leggero come una piuma e hop... si alzò da terra e... galleggiò nell'aria senza peso. Che sensazione fantastica!
«Magia! Stai volando!» esclamò l'esserino fatato per l'ennesima volta, e la sua risata cristallina echeggiò nella notte.
«Dove andiamo?» chiese il bambino, facendo una capriola non voluta che lo mandò quasi a sbattere contro un albero: non aveva ancora dimestichezza con il potere del volo.
«Non lo so» ammise la fatina. «Forse a cercare qualcuno che sappia aggiustare la tua automobile?»
Poi aggiunse felice «Magia! Mi sono ricordata che ho la vista telescopica! Vedo la tua macchina piantata in verticale come un siluro e tutta malconcia!»



Partirono alla ricerca di aiuto la fatina, leggera e aggraziata che da guardare era una delizia, e Benvenuto dietro, affatto elegante, che ondeggiava evitando pericolosamente gli alberi per un soffio; ma insomma, non se la cavava niente male per essere al suo primo volo...
Boom!
Come non detto. Questa volta andò a sbattere davvero contro qualcosa, o meglio qualcuno, sbucato all'improvviso da un cespuglio, e cadde a terra.
Quando alzò gli occhi ebbe un grande spavento. Un orco gigantesco incombeva su di lui e non aveva per niente un'aria amichevole. Anzi, a dirla tutta stava digrignando i denti gialli; gialli e minacciosi come gli occhi, che sembravano quelli di un felino.



«Aiuto!» gridò Ben.
La fata accorse al grido del suo piccolo amico e si parò davanti all'orco, con le mani sui fianchi e una smorfia di disapprovazione sul volto.
«Beh? Si spaventano in questo modo le persone? Vergogna!» disse puntando il ditino contro il gigante.
«Puoi fare un sacco di cose, e buone, tanto per cambiare! Guarda lì che muscoli! Ti affido subito una buona azione se vieni con noi».
«Un orco che fa una buona azione? Ma dico, sei impazzita? Che fine farebbe la mia reputazione di orco cattivo?» rispose il gigantesco essere.
«Pensa...» disse la fata, mentre con la mano faceva un gesto ampio, come se volesse mostrare lo schermo di un cinema immaginario. «Pensa che tutta la gente, invece di scappare terrorizzata al tuo passaggio, ti acclamerebbe come un eroe. Anzi, un supereroe, con lo straordinario potere della forza! Saresti portato in trionfo!»
«Sono orrendo, scapperebbero tutti ugualmente!»
L'orco rispondeva girando la testa da tutte le parti per guardare la fata che gli svolazzava intorno, e nonostante l'espressione da ebete e le braccia a penzoloni, uno strano guizzò lampeggiava nei suoi occhi: aveva voglia di acchiapparla e mangiarsela!
«No, vedrebbero solo la bellezza del tuo cuore» disse lei che, notando quel guizzo assassino, si era allontanata per prudenza.
«Sono cattivo» obbiettò ancora l'orco.
«No, non lo sei, hai solo dimenticato che puoi essere buono».
La fatina, come ogni femmina, possedeva l'arte raffinata della persuasione, che è molto più forte dei muscoli. E al gigante passò la voglia di mangiarla.
«Potresti sempre mettere una maschera per nascondere il viso, come fanno i supereroi!» disse Ben, il quale stava tentando di spiccare nuovamente il volo, ma subito dopo avrebbe avrebbe voluto rimangiarsi quelle parole perché gli sembrarono offensive.
La fata si girò verso di lui e ridacchiò silenziosa per non farsi vedere dall'orco.
Ma Rescatado - questo era il nome del gigante - non si offese, al contrario prese l'idea di Ben per il verso giusto e disse: «Posso avere anche un mantello?»
Poi abbassò la voce e si chinò per avvicinare la bocca all'orecchio dei due nuovi amici.
«Che resti fra di noi, ma io ho sempre sognato di diventare un supereroe!»
La fata e Ben dovettero fare un grande sforzo a quel punto per non ridere; invece il bestione, con un senso di autoironia davvero inatteso, scoppiò in una risata tanto fragorosa da far tremare la terra.
«Bene, seguitemi!» ordinò la fata e svolazzò luminosa per fare strada al gruppo.



In un baleno arrivarono al luogo del disastro, dove la macchina di Ben era piantata a testa in su con dentro il padre addormentato. L'orco la sollevò come fosse stata un ramoscello e la rimise sulle quattro ruote.
«È proprio malridotta, chissà se funziona ancora?» disse Ben.
«Magia!» esclamò ancora una volta la fatina.
«Mi sono appena ricordata che so aggiustare le cose!»
E in men che non si dica, grazie alle sue arti magiche, fece tornare l'auto come nuova, persino meglio di come era prima che l'uragano la sbatacchiasse su e giù tra cielo e terra.

«Perfetto!» disse l'orco. «Qui ho finito, vado a scuoiare una pecora per farmi il mantello!»
«Nooo!» gridarono la fata e Ben insieme.
«Hai già dimenticato che ora sei un eroe? Gli eroi non vanno in giro a scuoiare animali innocenti!» continuò la fata. «Vai da maga Tejedora. Tesserà un mantello su misura per te».
«Ah già, è vero, adesso sono buono! Humm... però... Tejedora mi trasformerà in rospo non appena mi avvicinerò alla sua casa. Mangiai il suo gatto nero lo scorso Natale. Insomma, avevo fame!»
L'orco ammise quella colpa con un sorriso da mascalzone pentito.
«Oh, benedetto ragazzo!» sospirò la fata alzando gli occhi al cielo.
«Dille che hai scelto di essere buono, ti perdonerà».



 «Va bene» rispose l'orco grattandosi il testone pelato. «Credo che me lo farò fare verde il mantello, dovrebbe intonarsi con la mia pelle gialla!» aggiunse, e se ne andò canticchiando felice.
«Ciao e grazie» disse Ben, che mentre lo guardava allontanarsi considerò come, in fondo, non lo vedesse più tanto brutto. Anche senza una maschera.

Era il momento dei saluti, doveva dire addio alla fata.
«Grazie di tutto» disse lei, che parlò per prima e tirò su col naso perché era commossa.
«Grazie per cosa? Non ho fatto niente, io, per te».
«Non è così amico mio, hai fatto moltissimo invece! Mi hai aiutata a ricordare chi sono e quante cose meravigliose so fare!»
«E tu hai aiutato me affinché potessi tornare a casa!» ora anche Ben tirava su col naso, perché l'idea di separarsi dalla fatina lo rendeva triste e aveva voglia di piangere.
«Questa è l'amicizia, bambino. Fare un po' di strada insieme, a volte breve, a volte lunga, e aiutarsi l'un l'altro. In compagnia il viaggio diventa molto più facile e interessante».
Ben l'abbracciò, ed era talmente leggera che gli parve di abbracciare l'aria, ma sentì fortissimo il calore del suo cuore.



 «A proposito...» chiese Ben. «Tu come ti chiami?»
«Amistad» rispose la fata, appoggiando con tenerezza la sua testina sulla spalla del bimbo.
«Amistad, tu sai qual è la cosa più preziosa dell'universo?» chiese ancora Ben, girandosi un'ultima volta verso di lei. La domanda gli ronzava nella testa dalla prima avventura.
«Humm... forse la memoria di chi siamo realmente?» La fata disse così perché era quella per lei la cosa più importante.
Ogni essere che Ben incontrava dava una risposta diversa.
Qual era la verità assoluta? E ne esisteva davvero una sola?

Appena il bambino salì sull'auto e chiuse la portiera, tutto cambiò. D'improvviso era di nuovo dentro l'uragano, nel turbine dell'aria impazzita, scarlatta come sangue.
Il padre si era svegliato e gridava: «Hai la cintura allacciata figliolo? Tieniti forte, passerà presto!»
«Sì papà!» gridò Ben a sua volta, mentre si chiedeva se davvero quel finimondo sarebbe finito presto. Cominciava anche ad avere fame. E pensava alla crostata della mamma che li aspettava al ritorno.


Filastrocca dei balocchi


Nel paese dei balocchi hanno tutti quattro occhi
Due che servon per guardare e precisi lavorare
Gli altri due sono speciali come strani e buffi occhiali
San vedere la magia di ogni cosa che ci sia.

Nel paese dei balocchi hanno tutti quattro gambe
Due per correre e saltare dentro ai fossi e far gli sciocchi
Le altre due che sono strambe
Perché servono a volare.

Nel paese dei balocchi hanno tutti un doppio cuore
Uno batte regolare con precisi e bei rintocchi
L'altro splende a tutte l'ore come un sole per amare.

Credere di essere




Credere davvero di essere - essere chiunque - ci permette di diventare chiunque. I bambini lo sanno: guardateli mentre giocano, fanno finta di essere, e se gli adulti non spengono la loro fantasia, potranno essere realmente ciò che di più grande riescono a sognare. Dobbiamo re-imparare da loro.
Leggete le favole ai piccoli, per aiutarli a ricordare la magia dell'esistenza.



Le magiche avventure di Ben - 1. Lo gnomo bellissimo




C'era una volta un papà che aveva promesso al suo bambino di leggergli una favola.
Tuttavia i libri di favole che possedeva il piccolo Benvenuto erano già stati letti e riletti infinite volte. Così, quel giorno, il papà decise di recarsi con il figlioletto a comprare un libro di fiabe nuovo di zecca. La mamma li salutò dalla finestra agitando il mestolo di legno; stava preparando una torta di ciliege che li avrebbe accolti - deliziosa - al ritorno. Benvenuto, che tutti chiamavano Ben, era molto eccitato mentre papà avviava l'automobile; quella sera stessa avrebbe potuto viaggiare con la fantasia. Niente lo rendeva più felice di ascoltare il padre o la madre che recitavano per lui, di pagina in pagina, storie fantastiche. Vedeva scorrere le immagini piene di colori, e i personaggi prendere vita dietro i suoi occhi chiusi. Poi si addormentava, ed ecco la magia: ancora più straordinaria e colorata, l'avventura continuava nei suoi sogni.

«È lontana la libreria papà?» Ben saltellava impaziente sul sedile posteriore, anche se aveva la cintura di sicurezza.
«Sì, un poco lontano, ma ne vale la pena. È grande sai? La più grande che abbia mai visto».
Mano a mano che scorreva il tempo, il panorama si faceva sempre meno familiare; Ben considerò che stavano viaggiando già da un pezzo, quindi chiese al padre: «Ci siamo persi?»
«No figliolo, non preoccuparti».
I papà non si perdono, casomai fanno giri più lunghi per esplorare il territorio, per questo motivo di solito non si fermano a chiedere informazioni sulla strada.

All'improvviso scoppiò un temporale. O forse si trattava di una tempesta, perché pioveva a dirotto e il vento urlava fortissimo. Il papà fermò la macchina per prudenza, mentre il cielo diventava blu cobalto, poi verde smeraldo, poi rosso rubino. E quando tutto il cielo e tutto intorno fu color vermiglio, davanti agli occhi stupefatti dell'uomo e del bambino apparve una spirale gigantesca. Pareva un arcobaleno rotante, un tornado coloratissimo che turbinava minaccioso nella loro direzione. Prima che potessero scendere dall'automobile e fuggire, il vortice li risucchiò con un frastuono assordante.



Non appena il fragore cessò, scese un silenzio innaturale. Ben aveva tenuto gli occhi chiusi per lo spavento, e quando li riaprì, ciò che vide fu ancor più stupefacente del fantasmagorico ciclone. Giaceva disteso accanto al padre e l'auto era scomparsa.
Si guardò intorno.
Il prato era celeste, con i fili d'erba blu come le genziane sui davanzali a casa della nonna. Gli alberi minuscoli come i bonsai dello zio e i fiori alti come i cipressi del cimitero dove dormiva il nonno.
Alzò lo sguardo al cielo, che invece di essere azzurro era verde. Di un bel verde mela pallido, come la frutta della merenda a scuola. E lassù splendevano tre soli rosa, un rosa tenero e gioioso, proprio come le rose che papà aveva regalato alla mamma per il loro anniversario.
Le nuvole invece erano batuffoli gialli come i pulcini di Amilcare, il contadino che portava le uova la domenica.
Insomma era tutto fuori posto!

Quando si riprese un poco dallo stupore gridò: «Papà, papà, ma dove siamo finiti?»
L'uomo aprì gli occhi in quel momento, si girò e rigirò da tutte le parti, spalancò la bocca in un gigantesco sbadiglio e si riaddormentò. Ben lo scosse a lungo e con tutta la forza che aveva, ma senza successo. Il papà era caduto in un sonno profondo, con le mani sotto la testa come cuscino, e un sorriso beato sul volto.
Il bimbo non sapeva che fare. Allora s'incamminò con la speranza di trovare aiuto.

Ma cammina cammina, non incontrava nessuno, solo enormi, profumatissimi fiori e piccoli alberi dai rami contorti. Fino a quando un fortissimo ronzio lo fece voltare di scatto.
Una coccinella grossa come un pollo era atterrata dietro di lui.
«Ahhh!» gridò terrorizzato.
«Aiutooo!» gridò la coccinella, e corse a nascondersi dietro lo stelo di un fiore grande come un tronco d'albero.
«Cosa sei?» chiese la coccinella dopo qualche istante di sgomento, facendo capolino con la antenne da dietro il fiore.
«Sono un bambino» rispose Ben con voce tremante.
«E cos'è un bambino?» la coccinella parlava ancora dal suo nascondiglio, sospettosa.
«Un essere umano che deve crescere».
«E cos'è un essere umano?» incalzò l'insetto. Benvenuto ci pensò un po' su e convenne che non sapeva spiegare una cosa del genere.
«Non lo so, ma ho bisogno di aiuto, mi sono perso in questa bizzarra foresta e mio padre è caduto in un sonno dal quale non vuole svegliarsi».
«Bizzarra foresta? Ma ti sei guardato quanto sei strano tu?»
Benvenuto non volle insistere, sottolineando il fatto che le coccinelle nel suo mondo erano poco più grandi di un seme di mela, e disse soltanto: «Insomma, puoi aiutarmi o no?»
«Mmm...vediamo... ah sì, chiamo farfalla Rosalba, ti porterà in volo fino a Maggot, il villaggio degli gnomi; è troppo distante da qui per andarci a piedi. Ti avverto, li spaventerai tutti con la tua diversità e forse non vorranno darti aiuto. Ma tu guardali intensamente negli occhi; hai uno sguardo buono, e da quello capiranno che non vuoi fare del male».
Mentre parlava in quel modo, era uscita dal nascondiglio e si era avvicinata al bambino per osservarlo meglio; i suoi occhietti neri si muovevano per squadrarlo su e giù, giù e su. Continuò in quel modo per diversi minuti.
«Beh? Non chiami farfalla Rosalba?» disse infine Ben che si sentiva un po' a disagio, come quando era lui a mettere le coccinelle sotto la lente d'ingrandimento per osservarle meglio.
«Ma certo, l'ho già fatto, è in arrivo».
«Io però non ho sentito niente!»
«E cosa dovevi sentire?» la coccinella, meravigliata da quella domanda, parlò sgranando gli occhi che diventarono più grandi.
«Dovevo sentire un grido, non so, un richiamo...»
«Che sciocchezza è mai questa? Non mi sentirebbe, è dall'altra parte della foresta!»
«Dunque come hai fatto ad avvertirla?» chiese Ben che non riusciva a capire.
«Con la telepatia, che altro sennò?»
«Con che cosa...?!» il bambino era sempre più confuso.
«Con la telepatia, cioè con il pensiero. Ma non sai proprio niente tu!» disse l'insetto un poco spazientito.



In quel momento il cielo verde divenne scuro, una farfalla gigantesca stava sorvolando le loro teste.
Si posò leggera, nonostante le dimensioni, sui petali di una rosa rossa, e Benvenuto poté ammirarla in tutta la sua magnificenza. Le immense ali color turchese erano screziate di blu mirtillo, blu come le antenne sottili e lunghe che dondolavano mosse dal vento.
Parlò con una voce aggraziata e lenta, dall'accento un po' vanitoso: «Lui chi è?»
«Un essere chiamato bambino. Devi portarlo a Maggot, ha bisogno di aiuto» rispose la coccinella.
Ben aveva la bocca spalancata dallo stupore e non sembrava in grado di parlare in quel momento. Senza perdere tempo Rosalba lo afferrò e volò via con lui; leggera ma evidentemente forzuta, ondeggiò nell'aria verde mela fino al villaggio.
Lo depositò gentilmente a terra e disse: « Da qui in poi devi proseguire solo. Meglio non sappia nessuno che ho aiutato una strano essere a raggiungere Maggot, il villaggio segreto degli gnomi; ma tu hai occhi innocenti e sono certa che non farai del male. Piuttosto, sii prudente, potrebbero lanciarti pietre».
E se andò svolazzando turchina.



Il villaggio era prossimo, Ben sentiva persino canticchiare in lontananza. Mentre affrettava il passo, vide qualcuno seduto all'ombra dei petali di una gerbera bianca, appoggiato allo stelo grosso come il tronco di una quercia. Sembrava un bambino, ma non poteva vederlo bene perché nascondeva il viso tra le mani, e quando fu più vicino si accorse che piangeva.
«Ti sei perso anche tu?» gli chiese.
A quelle parole la creatura alzò lo la testa e Ben poté guardarlo in volto. Non era un bambino; i suoi tratti non rispettavano le proporzioni di una faccia umana, ma la sua bellezza era tale da togliere il fiato. Aveva la pelle diafana, talmente diafana da mandare bagliori d'argento, e gli occhi grandi almeno il doppio di quelli di un bimbo, trasparenti e luminosi come due cristalli di ametista. La sua lunga chioma color platino luccicava come i fili dell'albero di natale. Tutta la figura di quell'essere esprimeva una straordinaria armonia. Si alzò in piedi, facendo leva sulle mani a quattro dita.
Benvenuto, che a quella visione pensò di essere morto e che quello fosse in realtà il paradiso, disse balbettando: «Sei... Sei un angelo?»
La creatura ricominciò a piangere, e tra le lacrime rispose: «Sono uno gnomo... Nemmeno tu mi hai riconosciuto!»
«Scusami, io non ho mai visto uno gnomo. A dire il vero non ho mai visto nemmeno un angelo, ma pare che siano bellissimi, e tu lo sei...»
Non lo avesse mai detto! Lo gnomo passò dal pianto ai singhiozzi disperati. Ben era mortificato e confuso. «Perché piangi?»
«Perché sono bello!» rispose la creatura d'argento soffiandosi il minuscolo naso.
«Ma la bellezza è una cosa bella... Cioè, voglio dire... è un dono meraviglioso. Tu non lo vuoi?»
«Mi rende diverso da tutti, il prossimo ride di me e io mi sento così solo!»
«Nel mio mondo la bellezza è la cosa più desiderata, più preziosa... almeno credo!» mentre pronunciava quelle parole, Ben comprese che in quello stranissimo luogo era davvero tutto al contrario!
«Quindi gli gnomi sono brutti?» aggiunse.
«Sì, magnificamente brutti» rispose Silverdon – quello era il suo nome – con la voce triste e un'espressione sconsolata.
«Andiamo al villaggio, voglio vedere come sono fatti quelli della tua razza».
«Tireranno le pietre a tutti e due, perché anche tu sei diverso».
«Non abbiamo scelta. Io devo chiedere aiuto per tornare a casa e, tu, vuoi restare qui tutto solo a morire di tristezza?»

Benvenuto prese per mano il nuovo amico stringendo tutte e quattro le sue dita, e insieme camminarono fino Maggot.
Era preoccupato ma doveva farsi coraggio per entrambi. Ci misero più tempo del previsto perché Silverdon aveva uno strano modo di camminare: saltellava a piccoli passi sui piedi scalzi, anch'essi a quattro dita.
Infine ecco il villaggio.



La prima cosa che vide Ben furono le case degli gnomi: enormi funghi dal cappello rosso o bruno, tutti con porta e finestre piccine. Quella che pareva la strada principale era costeggiata su entrambi i lati da una fila ordinata di margherite altissime, come un viale alberato che al posto degli alberi ha i fiori. E i funghi-casa più grandi erano dotati di balconi, con vasi dove crescevano piccoli alberi al posto dei fiori.
Un gran via vai di gnomi affollava la strada, parevano tutti molto affaccendati.
Silverdon aveva affrettato il passo e camminava a testa china stringendo più forte la mano di Ben. Non voleva farsi notare, anzi, avrebbe proprio voluto nascondersi. Ma lui e il bambino erano molto più alti rispetto a tutti gli gnomi ed era impossibile passare inosservati. Infatti, ben presto, qualcuno cominciò a indicarli col dito, a sghignazzare o a scansarsi per evitare un contatto accidentale.
Benvenuto guardava questi esseri piccoli e gobbi dalla pelle grigiastra. Con i loro nasoni, le grandi bocche storte dai radi denti aguzzi e gli occhi sporgenti come palle; erano... proprio brutti! Come potevano, loro, considerare brutto Silverdon?



«Andiamo, svelto» Silverdon trascinò Benvenuto in un vicolo stretto stretto, e da lì, di corsa fino a casa sua. Quando aprì la porta, una signora gnomo gli corse incontro e lo abbracciò così forte che pareva volesse stritolarlo, anche se era più piccola di lui.
«Tesoro, mi hai fatto stare così in pena!» Era la madre di Silverdon, e Ben comprese che le mamme sono proprio mamme ovunque, anche in un mondo fatto al rovescio come quello.
Finalmente si accorse di lui. Spalancò gli occhi a palla e disse: «Ohhh, abbiamo un ospite!»
Poi rivolgendosi al figlio: «Hai portato un nuovo amico? Hai fatto bene!» e la sua bocca grande si aprì in un sorriso dolcissimo, scoprendo i denti radi e aguzzi.
Mentre faceva accomodare Ben sopra un fiore di giglio reciso, continuava a fissarlo. Il cuore le batteva forte, di compassione ma anche di conforto, perché stava pensando che non era più l'unica mamma di uno sfortunato gnomo bello. Da qualche parte, un'altra povera mamma condivideva il suo tormento.
Silverdon parve leggerle quel pensiero: «Mamma, lui non è uno gnomo, è un bambino, viene da un altro mondo».
«Ohhh... e di che razza sono i bambini?» disse la signora gnomo delusa, ma piena di curiosità.
«Razza umana, si chiama così, però non so spiegare cosa sia» rispose Ben.
«E sono tutti... ehm... come te, nel tuo mondo?»
La mamma aveva abbassato la voce; temeva di offendere il suo ospite con quella domanda ma doveva assolutamente saperlo se esisteva un paese dove tutti sono sfortunatamente belli come il suo figliolo!
Ben capì e rispose: «Sì, nel mio mondo siamo fatti così. Da noi è tutto al rovescio. E la bellezza è una grande fortuna!»
«Davvero?»
Gli occhi di mamma gnomo si illuminarono.
«Davvero» continuò Benvenuto. «Una creatura come Silverdon sarebbe considerata meravigliosa dagli esseri umani; magari un po' fuori dal comune, ma certamente molto apprezzata. Anzi, sarebbe vista quasi come una divinità!»
Le quattro dita delle mani di mamma gnomo cominciarono a tremare e i suoi occhi si fecero lucidi come se stesse per piangere. Il cuore pareva scoppiarle nel petto dalla gioia. Poi, l'espressione di meraviglia del suo volto si tramutò in una smorfia di dolore e disse: «Bambino, ti prego, porta Silverdon con te, nel tuo mondo, portalo via da qui...»
L'amore di una madre non ha confini, trascende anche la sofferenza di strapparsi un figlio dalle braccia pur di saperlo felice e al sicuro. E mamma gnomo era pronta al sacrificio.
«Se Silverdon è d'accordo, io sarò felice di portarlo a casa mia, però devo sapere come tornarci... a casa mia!»
«Andiamo da Frudolg, il capo villaggio, lui conosce tutto di ogni cosa, potrà aiutarci» disse la signora mentre allungava al bambino e al figlio due foglie cucite a foggia di cappuccio.
Ma Silverdon questa volta rifiutò di nascondere il volto sotto al cappuccio per non spaventare, con la sua bellezza, il popolo di Maggot. La presenza di Ben lo rendeva forte, non era più l'unico bello in circolazione e non voleva più nascondere la sua diversità né provarne vergogna. 



Nella piazza del villaggio c'era il fungo-municipio, la residenza di Frudolg. Quando la signora gnomo, Silverdon e Benvenuto furono al suo cospetto, il vecchio gnomo li ricevette con un po' di imbarazzo e lo sguardo basso. Era a disagio ogni volta che incontrava Silverdon e sua madre, e ora, di sfortunati giovani deformati dalla loro bellezza, ce n'erano addirittura due!
Benvenuto espose subito i fatti senza perdere tempo.

Il vecchio ascoltò con grande attenzione, e si grattò a lungo la barba mentre rifletteva, prima di rispondere. Poi cominciò a tracciare strani segni sopra a un tavolo cosparso di sabbia, utilizzando un rametto di quercia nana. Dopo numerosi e complicati calcoli disse: «Ci sarà presto un'altra tempesta cosmica, un evento raro. Dobbiamo sbrigarci, il varco spazio-tempo è in chiusura e la porta si trova nella Radura di Noll. Ma è protetta da un guardiano terribile, l'elfo Palantir».
«Varco spazio-tempo? Di cosa si tratta?» chiese Ben che non aveva mai sentito parlare di una cosa del genere.
«L'universo è immenso, figliolo. E non solo le distanze da un punto all'altro del cosmo sono incalcolabili, ma esistono anche universi paralleli molto differenti. Come lo è il tuo dal mio. L'unico modo di viaggiare attraverso i mondi è con questi specialissimi tunnel».
Benvenuto non era affatto sicuro di aver capito, ma pensò che avrebbe chiesto spiegazioni più precise al suo papà, quindi non disse altro.

«Può viaggiare anche Silverdon con il bambino, e andare con lui nel suo mondo?»
La mamma gnomo aveva parlato con i pugni serrati al petto, trepidante di speranza e di dolore.
«Perché vuoi sbarazzarti del tuo amato figlio?» chiese il capo villaggio stupito.
Rispose Benvenuto per lei:
«Perché il mio mondo è fatto al contrario e la bellezza da noi non è un difetto ma una benedizione. Silverdon è talmente bello e speciale che sarebbe amato e venerato quasi come un Dio».
«Davvero?» esclamò Frudolg al colmo dello stupore, ma gli credette, perché Ben aveva parlato rivolgendo lo sguardo a sinistra, che nel linguaggio del corpo significa dire la verità, e il saggio gnomo conosceva il linguaggio del corpo. Inoltre il bambino aveva occhi innocenti, e quelli non mentono mai.
Si trattava di informazioni importanti, doveva valutare molto bene la faccenda. Riprese ad accarezzare la sua barba giallognola nel silenzio rispettoso dei tre convenuti.
Dopo una lunga pausa disse: «Se dunque la bellezza e la bruttezza non sono la stessa cosa per tutte le creature dell'universo, allora non si tratta di una verità assoluta. Significa che non esiste il bello e il brutto, bensì ciascuno è fatto a suo modo, unico e irripetibile. Come mai eravamo all'oscuro di tutto questo? Ahhh, quei pelandroni dei nostri messaggeri! Invece di andare in giro a raccogliere la conoscenza, se ne stanno a grattarsi la pancia e bere sidro! Questa rivelazione deve diventare patrimonio di tutti. Farò un esposto pubblico perché l'intera comunità di Maggot sappia la verità».
Poi afferrò le mani della mamma di Silverdon e riprese: «Non crucciarti madre, non dovrai rinunciare a tuo figlio, d'ora in poi tutti qui lo guarderanno come un essere speciale e nessuno avrà più timore di lui. Perbacco, non vogliamo diventare famosi per essere un un popolo barbaro e ignorante!»
La signora gnomo scoppiò in un pianto commosso e, dopo anni di tormento, provò di nuovo cosa significa essere felice.
Ben aveva un groppo in gola perché non aveva mai pensato al dolore che provoca la diversità. Dal canto suo Silverdon, che ancora non poteva credere a quel miracolo, si specchiò nella tinozza del sidro e per la prima volta gli piacque l'immagine che vide.
«Sbrighiamoci!» Il capo villaggio impugnò il suo bastone nodoso e condusse tutti fuori da Maggot, fino alla foresta dei girasoli.



Attraversarono uno sconfinato campo di granoturco azzurro; il guado di un ruscello dall'acqua rosa (perché ci si specchiavano i tre soli rosa, altrimenti sarebbe stata trasparente); una prateria insidiosa di piccole querce i cui rami graffiavano le caviglie; la ripida montagna dei fiori bianchi di saponaria, più scivolosa di una pista da sci e che scalare richiese un sacco di tempo e scivoloni. E infine giunsero alla Radura di Noll. Ora dovevano affrontare il terribile Palantir, l'elfo guardiano.

«Palantir! Qui tre viandanti chiedono di parlare con te!» Il capo villaggio gridò con voce sorprendentemente alta e il suo richiamo echeggiò per tutta la vallata.
«Perché chiami il temibile elfo, invece di farci passare di nascosto? Credevo che dovessimo sfuggirgli!» chiese Ben spaventato.
«Bambino, l'elfo guardiano non è solo. Ha un esercito di Otimors, i terribili elfi dalle unghie a sciabola. Se attraversiamo la radura senza il lasciapassare di Palantir, ci affettano come carote!»

Frudolg non aveva nemmeno finito di parlare che, apparso chissà da dove, ecco, davanti a loro, l'altissimo e minaccioso Palantir. Incuteva davvero paura con quelle enormi orecchie appuntite, gli occhi obliqui e trasparenti come cristallo e i lunghissimi capelli bianchi come la neve che scendevano sulla veste di velluto blu come la notte. Rivolse uno sguardo verso il basso a quei temerari che osavano disturbarlo. Ben aveva invece timore anche solo ad alzare lo sguardo su di lui.

Toccò al capo villaggio parlare, ovviamente: «Palantir, permettici di attraversare la Radura di Noll e raggiungere il Cristallo Sacro, prima che si chiuda il portale spazio-tempo. Questo giovane umano deve tornare nel suo mondo».
«Conosci la Legge, uno di voi quattro deve rispondere alla mia domanda e se fallisce morirà. Vuoi esporre a morte certa te stesso o qualcuno dei tuoi amici?»
La legge degli elfi di Noll era ferrea: per accedere alla loro terra si doveva dimostrare una saggezza rara: la sfacciataggine di tentare la sorte, senza possederla, si pagava con la vita.
«Non abbiamo scelta! Ebbene, poni la tua domanda, risponderò io» disse Frudolg, offrendo eroicamente se stesso.
«No, non è giusto, sono io che devo tornare a casa, falla a me la domanda!» Benvenuto non riusciva a credere alle parole coraggiose che gli erano appena scappate di bocca.
«No, falla a me la domanda» disse Silverdon, con la sua voce armoniosa come un canto.
«No, falla a me!» implorò la mamma, che non avrebbe potuto sopportare il sacrificio del figlio.

«Bene!» tuonò Palantir. «La farò a tutti voi. Chi darà la risposta per primo esporrà se stesso alla morte. La domanda è questa: qual è la cosa più preziosa di tutto l'universo?»
«La conoscenza!» disse Frudolg.
«La giustizia!» disse Ben.
«La libertà!» disse Silverdon.
«L'amore!» gridò mamma gnomo.
Risposero tutti e quattro insieme.
In quel momento il cielo fu oscurato da una moltitudine di ali. Farfalla Rosalba sollevò Benvenuto. La coccinella grossa come un pollo, che guarda un po' si chiamava Pollon, prese il capo villaggio. Il coleottero d'oro Dorione, cugino di Pollon, acchiappò mamma gnomo. E la libellula Loralilla, cognata di Rosalba, afferrò Silverdon.
Prima che Palantir potesse reagire, erano tutti salvi, in volo verso il nascondiglio segreto del Cristallo Sacro.

«Come sapevate che avevamo bisogno di soccorso?» chiese Ben appeso alle sottili zampe di Rosalba, mentre dondolava nell'aria verde mela.
«Oh, che domande, bambino! Il tam tam no?»
«Il... cosa?»
«Il tam tam, il passa parola telepatico! Come credi che facciamo pettegolezzo altrimenti, noi che viviamo in questo mondo sconfinato?»

In breve raggiunsero la loro destinazione e furono tutti depositati gentilmente a terra. Beh, non proprio tutti; Pollon planò in modo un po' maldestro e fece sbattere il nasone a Frudolg che le lanciò un'occhiataccia.
«Di qua!» disse poi lo gnomo alzando il suo bastone, e condusse il gruppo verso un baobab.
Anche se gli alberi di quella terra erano nani, essendo il baobab un albero relativamente gigante, era abbastanza grande da ospitare l'ingresso di una caverna sotterranea. Scesero tutti, anche gli amici insetti, stringendo le ali. E lì, nel buio, splendeva un enorme cristallo di quarzo.
«Ohhh!» esclamarono tutti insieme. Nessuno di loro, tranne il vecchio gnomo, aveva mai avuto il privilegio di trovarsi al cospetto del Cristallo Sacro, il custode millenario di una delle rare porte spazio-temporali dell'universo.

Benvenuto e Silverdon si guardarono. Gli occhi ametista dello gnomo bellissimo mandavano bagliori di stelle nella luce magica della caverna. Era giunto per loro il momento di separarsi; e forse per sempre. Appoggiarono la fronte una contro l'altra, senza parlare, e i capelli castani di Ben si mischiarono ai riccioli platino di Silverdon.
«Addio, caro amico gnomo» disse Ben.
«Addio, caro amico umano» disse Silverdon.
Pollon si soffiava il naso, anche se non ce lo aveva il naso, ma insomma doveva pur esternare in qualche modo la commozione che provava il suo tenero cuore d'insetto!
Rosalba invece disse con la sua voce suadente: «Se fate pratica con la telepatia, potrete comunicare da qualunque distanza o pianeta dell'intera creazione».

«Su, su, svelti, il portale si sta chiudendo!» esortò Frudolg. «Allontanatevi tutti, e tu, bambino, appoggia la mano destra sulla punta del Cristallo Sacro».
Dall'interno della caverna si udì un fragore tremendo, fuori urlava la tempesta. In quel momento il Cristallo si accese di una luce abbagliante, e Ben, che aveva la mano destra appoggiata sulla punta, scomparve sotto gli occhi spalancati e stupefatti dei suoi amici.

Si ritrovò sul sedile posteriore dell'automobile, la quale stava girando vorticosamente risucchiata dal tornado, e il papà era di nuovo sveglio e al posto di guida.
«Tieniti forte, figliolo!» gridò.
Ma Benvenuto non aveva paura. In verità si stava chiedendo quale fosse la risposta giusta alla domanda dell'elfo Palantir. Qual è la cosa più preziosa dell'universo intero? E, una volta cessato l'uragano, sarebbe tornato a casa o precipitato dentro un'altra fantastica avventura?