IL GIOCO DELLE CINQUE DOMANDE



C’è una fase dell’infanzia durante la quale i bambini fanno domande su domande, a ripetizione, tanto quasi da rimbambire i genitori. Tuttavia mi chiedo se questa modalità nasconda una innata saggezza. 

Conosco un esercizio che, pur nella sua semplicità, dona risultati stupefacenti. E’ infatti capace di portarci fin nel profondo delle nostre più nascoste motivazioni riguardo a come agiamo e a cosa scegliamo di fare o non fare nel corso della vita. Si tratta dell’esercizio delle 5 domande.

Per chiarire scrivo un esempio. Poniamo il caso che si è sviluppata in noi la credenza di non essere bravi a cucinare; come risultato detestiamo cucinare e, dove sia possibile, facciamo di tutto per evitare questa incombenza. Ma cominciamo a chiederci:

«Perché odio cucinare?» Prima risposta: «Perché quando cucino mi sento a disagio.
La seconda domanda sarà quindi: «Perché mi sento a disagio?» Seconda risposta: «Perché provo emozioni negative».
Terza domanda: «Perché provo emozioni negative?» Terza risposta: «Perché ho brutti ricordi legati all’infanzia».
Quarta domanda: »Perché ho brutti ricordi infantili legati al cucinare?» Quarta risposta: «Perché mia madre cucinava spesso piangendo».
Quinta domanda: «Perché la mamma cucinava piangendo?» Quinta risposta: «Perché papà le gridava contro e i due litigavano».

Quindi, come possiamo vedere, da qualcosa che in superficie sembrerebbe solo una mancata attitudine (quella del cucinare), siamo arrivati a dinamiche familiari disfunzionali.

Scavare in questo modo semplice e strutturato, non solo aiuta a comprendere molto di noi stessi, di cosa ci muove, di cosa ci ostacola, ma possiamo anche trovare soluzioni. Soluzioni tanto inaspettate quanto lo sono le cose che saremo riusciti a scoprire.

Possiamo insegnare l’esercizio, costruito in questo modo, ai bambini, persino ai più piccoli; lo prenderanno come un gioco ma ne trarranno grandi vantaggi. In particolare si abitueranno a una rapida ed efficace analisi introspettiva, utilissima a qualunque età.

L'AMORE IN OGNI COSA

 

C’era una volta, tanto tempo fa, una casa triste. Molto triste. Le sue finestre sempre chiuse erano come occhi serrati, e nei giorni di pioggia l’acqua si raccoglieva sui davanzali, per poi scorrere lentamente giù, lungo i muri, come lacrime di un pianto silenzioso. Le persiane rotte, l’intonaco della facciata scrostato qua e là, il cancello arrugginito e l’erba alta fra i sassi del vialetto, le davano un aspetto miserando. E lei si sentiva proprio così: miseranda e abbandonata. I tempi gloriosi di quando era la più bella casa della città, la più elegante e la più celebre, sembravano lontanissimi! L’ultima proprietaria, deceduta ormai da tempo, pare fosse anche l’ultima discendente di una dinastia che si tramandava l’edificio in eredità. Una contessa elegante, raffinata e colta alla quale piaceva circondarsi di artisti, ma non necessariamente: bastava che una persona fosse un po’ bizzarra per piacerle. In fondo anche lei era fuori dall’ordinario.


Amava la gente, gli animali, le piante, e anche i sassi, le conchiglie, i cristalli; ogni cosa, secondo la donna, possedeva uno spirito intelligente. Così su ogni mobile, tavolino, mensola e ripiano c’erano piante e fiori, e da tutte le stanze sbucava qualche animale; ora un cane, ora un gatto, talvolta un procione o un furetto. Svolazzavano liberi e felici persino due pappagalli e un cardellino. Poi non mancava mai qualche ospite, umano naturalmente. Che fosse mattina, pomeriggio o sera, i visitatori andavano e venivano, sempre accolti a braccia aperte dalla squisita padrona di casa. E non era insolito udire le domestiche canticchiare. D’altra parte, come si poteva non essere gioiosi in quell’ambiente colorato, pieno di vita e di bellezza?


Gli arredi erano sontuosi: mobili veneziani del settecento dai delicati colori pastello, tappeti pregiati, quadri e statue di squisita fattura, tendaggi in seta e cuscini di velluto. Una luce meravigliosa attraversava generosamente le grandi finestre, azzurra la mattina, bianca durante il giorno e rosa la sera. Hooo quanto rimpiangeva la sua bella luce il castelletto! E le voci degli ospiti, lo schiamazzo degli animali, le corse dei bambini. Che nostalgia l’aroma della cioccolata calda consumata nel giardino d’inverno tra i limoni e le gardenie, e il profumo del tè da sorseggiare nelle porcellane inglesi all’ombra del pruno nel giardino estivo! Aveva nostalgia di tutto, anche delle cose apparentemente più banali e dei gesti d’ogni giorno. Come il fruscio della carta da lettere, quando la contessa scriveva inviti per le sue leggendarie feste, l’odore dell’inchiostro, il profumo dei libri che la donna leggeva la sera nella sala biblioteca, comoda in poltrona davanti al camino acceso.

A tutti quei bei ricordi il castelletto si struggeva e, anno dopo anno, diventava sempre più triste e malconcio. La speranza di tornare a risplendere come un tempo era morta una sera, quando aveva udito il notaio affermare la mancanza di eredi. Allora cosa gli sarebbe successo? Lo avrebbero forse abbattuto? Che orrore quel pensiero. Tanto orrendo da fargli tremare i muri!


Un pomeriggio di mezza estate il piccolo Matteo ‒ vispo bimbetto di sei anni ‒ era a passeggio con la mamma proprio lungo il viale dove sorgeva l’edificio. «Che bella casa!» esclamò davanti al cancello, mentre puntava i piedi e tirava il braccio della madre perché si fermasse anche lei a guardare quella meraviglia. La donna scorgeva solo un gran vecchiume attraverso la fitta sterpaglia del giardino; era stupita che al bimbo piacesse una tale catapecchia! «Non vedi che cade a pezzi?» rispose. «E’ un rudere!»
Il piccolo insistette: «Ề favoloso questo castello!»
La donna però continuava a non vedere che ruggine, muri scrostati ed erbacce. L’unica cosa bella del luogo, almeno secondo lei, era un glicine rigoglioso, arrampicato sulla facciata principale dell’edificio.

Da quel giorno, e tutti i giorni seguenti, Matteo chiese alla mamma di fare la stessa strada, e ogni volta si fermava rapito a guardare la casa. Bisognava trascinarlo via, o sarebbe rimasto là per ore! 

Quando compì otto anni i genitori gli regalarono una bicicletta e il permesso di andare a scuola da solo. Ora poteva correre dal “suo castello” ogni mattina, e questo era motivo di frequenti ritardi a scuola. Niente poteva farlo desistere, nemmeno i rimproveri della maestra, né le punizioni di mamma e papà. L’edificio sembrava esercitare un’attrazione ipnotica sul bambino, che parlava con lui come a un vecchio amico. Gli aveva anche dato un nome: “Splendore”.
“Non ti preoccupare Splendore” gli diceva. “Quando sarò abbastanza grande da poterti comprare ti aggiusterò tutto!”

“Splendore” era commosso per il singolare affetto del bambino, ma non confidava molto nelle parole di un umano tanto giovane. Tuttavia, con il trascorrere del tempo, Matteo si dimostrò degno di fiducia perché non mancava mai all’appuntamento giornaliero. Fu così che cominciò l’amicizia tra una vecchia casa e un ragazzino.

Splendore ‒ quel nome gli piaceva un sacco ‒ si affezionò al giovane amico e aspettava tutti i giorni il suo arrivo sbirciando la strada con le finestre del piano superiore, che vedevano più lontano. Si preoccupava moltissimo per ogni più piccolo ritardo del bimbo; in fondo era un cucciolo d’uomo in giro da solo per le strade di città, e Splendore non voleva perdere quel grande amico, non voleva nemmeno pensare a una cosa del genere! Aveva cominciato a volergli molto bene e l’affetto che riceveva da lui era una nuova ragione di vita, tanto grande da valere bene qualche angustia! Capì che l’amore ha un prezzo ma, come tutti gli innamorati, era ben felice di pagarlo. Non credeva più di essere una catapecchia abbandonata perché riusciva a vedersi attraverso gli occhi del bambino, che lo guardavano con ammirazione. E quegli occhi non vedevano un cancello arrugginito, ma lance d’ottone e preziosi decori, né sterpi ma piante esotiche. Le sue orecchie non udivano silenzi di abbandono ma le musiche delle antiche feste e le allegre voci degli ospiti. Il suo naso non sentiva odore di muffa ma l’aroma di tè inglese, di cera d’api della lucidatura dei mobili, e forse anche il raffinato profumo francese della contessa. Grazie all’amore di un ragazzo, una vecchia casa riviveva i fasti del passato. La cura e la bellezza assorbita nel tempo dai muri di Splendore gli avevano regalato un’anima. Ora palpitava per un fanciullo che aveva saputo guardalo di nuovo con gli occhi dell’amore, la più grande e misteriosa delle magie.


Mattia desiderava moltissimo entrare nel castello e vedere com’era fatto dentro, chissà quanti segreti nascondeva! Un giorno decise che era venuto il momento di azzardare l’impresa. Quindi, armato di torcia e di coraggio, provò a girare il grande pomello della porta d’ingresso. Niente da fare, era chiuso a chiave. Deluso ma non vinto, fece il giro di tutto l’edificio finché trovò una persiana al pian terreno più sgangherata delle altre. Dopo aver creato un varco schiodando due assicelle, aprì anche il telaio della finestra; a quel punto la maniglia si ruppe, tanto era ormai corrosa dal tempo, e cadde a terra con un gran fracasso. Matteo ebbe paura; per un attimo restò immobile, quasi paralizzato, mentre il rumore ancora rimbombava nel salone. Aveva il cuore in gola e convenne che le sue azioni sembravano quelle di uno scassinatore. Tuttavia il desiderio di entrare era più forte di qualunque timore. Ogni grande impresa richiede coraggio, determinazione e, talvolta, comportamenti fuori dall’ordinario!

Quindi saltò dentro e iniziò a osservare il salone con l’aiuto di una torcia, anche se non era completamente al buio grazie alle fessure delle persiane rotte che lasciavano filtrare un po’ di luce. Ohhh che meraviglia quella stanza! Un enorme camino in marmo rosa troneggiava, alto come un uomo, nella parete centrale. I muri erano tappezzati di grandi quadri dalle cornici dorate; raffiguravano scene campestri, bouquet di fiori o personaggi vestiti alla moda del millecinquecento, dell’ottocento e della Bella Epoque. Lampade di opaline su minuscoli tavoli, o a stelo con cappelli di stoffa, erano disposte ovunque, e Matteo riusciva a immaginare la calda luce che avevano fatto un tempo. Sotto i teli che proteggevano divani e poltrone dalla polvere, ammirò i colori un po’ sbiaditi dei tessuti. E i pavoni della piccola dormeuse accanto a una finestra, le felci sui cuscini rotondi e quadrati, grandi e piccoli, ricchi di nappe e frange di velluto.


Al piano superiore c’era una grande stanza con un letto a baldacchino, arricchito da tendaggi e copriletto in pregiato bisso rosa. Nonostante fossero strappati e ingialliti dal tempo, mostravano ancora i segni dell’antica opulenza. Sulla parete di fronte al letto un quadro a figura intera mostrava una donna bellissima vestita di azzurro, con lunghi capelli neri raccolti. Qualche ricciolo scomposto, lo sguardo fiero e un’espressione che sembrava beffarda, raccontavano di una donna volitiva e ribelle. Matteo non aveva dubbi: era il ritratto della padrona di casa. Finalmente poteva conoscerla, vedere il volto di quella eccezionale creatura, carpire qualcosa di lei, della sua intimità e dei suoi segreti.
In piedi davanti al quadro e con aria solenne, fece un giuramento: «Riporterò questa casa agli antichi splendori! E non temere, non cambierò niente, riparerò tutto fino all’ultimo oggetto, perché è perfetta così come l’hai voluta, e io l’amo quanto l’hai amata tu».

Forse non furono le sue esatte parole, in fondo era un bambino di otto anni, ma il contenuto sì, era questo. Aggiunse, e questa volta le parole erano proprio le sue: «Sono troppo piccolo adesso. Dammi il tempo di crescere e di guadagnare abbastanza denaro per comprare la casa».

Negli anni che seguirono, più ripensava a quel momento più avrebbe giurato che sul volto della donna fosse apparso un sorriso. Il tempo trascorse con apparente lentezza, perché quando si cresce sembra camminare piano come un vecchio che ha l’artrite, e quando si è vecchi con l’artrite sembra correre come un giovanotto! Matteo intanto andava maturando il desiderio di studiare architettura. E così fece quando arrivò il momento di iscriversi all’università. Aveva fretta, temeva che la casa sarebbe stata venduta prima che avesse il tempo di diventare adulto e guadagnare i soldi necessari a comprarla. Ma possedeva anche una sorta di fiducia, di certezza che quel luogo fosse destinato a lui.

Durante gli anni non mancarono certo i possibili acquirenti, gente interessata spesso più al terreno che alla vecchia dimora. La maggior parte degli eventuali nuovi proprietari l’avrebbe dunque demolita. Tuttavia, ogni volta la vendita sfumava. Il primo a farsi avanti fu un costruttore che voleva trasformare il castello in un centro commerciale. Proprio durante il suo primo sopralluogo un tubo si ruppe e diffuse nell’aria un odore nauseabondo. L’uomo abbandonò la trattativa al pensiero delle tubature marce e della puzza che, se non se ne fosse mai andata, avrebbe fatto scappare i suoi clienti. Stranamente l’odore scomparve non appena il costruttore decise di rinunciare, e il tubo non perse acqua mai più.

Poche settimane dopo si presentò una donna con il marito al seguito; lei alta, secca e arcigna, lui un ometto piccolo e grasso che non parlava mai e che sembrava il suo barboncino. Durante la visita tra i piani e le stanze la donna non aveva fatto altro che parlare di muri da abbattere e “ciarpame” da vendere ai rigattieri. Mentre era sul punto di firmare il contratto, con la penna in mano e il gomito alzato, un urlo agghiacciante echeggiò tra i corridoi, seguito da frastuono di catene. Alla donna si rizzarono i capelli in testa e, sicura che si trattasse di un fantasma anche se era pieno giorno, scappò via trascinandosi dietro il marito. Senza firmare l’atto di acquisto, naturalmente!

Uno dopo l’altro, i candidati rinunciarono. Chi per i rumori inquietanti, chi per qualche danno improvviso, chi per accidenti che avevano persino messo in pericolo la loro incolumità, come quella volta che un grosso pezzo d’intonaco crollò sulla testa di un vecchio dottore. Pian piano si diffuse la voce che la casa fosse stregata.


Non tutti però credono a queste cose e un giorno, un ardito e paffuto commerciante vide nell’acquisto del castello un buon affare. Niente sembrava intimorirlo o farlo desistere, sembrava non avesse paura di niente. Scoppiarono altre tubature, ci fu un’invasione di orribili ragni che uscivano dai lavandini, la puzza lo seguiva come una fetida ombra e le urla e i lamenti avrebbero fatto accapponare la pelle a un morto! Ma il rubicondo commerciante restava impassibile. E comprò la casa.

Quando Matteo lo venne a sapere fu colto dalla disperazione! Non ce l’aveva fatta, la casa ora apparteneva a qualcun altro e il suo sogno era infranto. Anche se ormai adulto, il giorno che ricevette la notizia pianse. Stava diventando un valente architetto a un solo anno dalla laurea, ma non aveva ancora accumulato denaro per comperare nemmeno una rimessa, figuriamoci un castello e il suo terreno!

Nel frattempo il commerciante, uomo assolutamente pratico, un vero affarista come aveva dimostrato, stava per disfarsi dei mobili, e i suoi operai erano pronti a trasformare tutta la casa ‒ orrore ‒ in un’abitazione moderna. Si avvaleva, per lo scempio, di un sedicente geometra e di progetti personali che riflettevano i suoi pessimi gusti.

Dopo giorni di tormento Matteo vinse il dolore di assistere alla fine dell’amato “Splendore”, e andò a curiosare. Quel pomeriggio gli operai erano già al lavoro e ammassavano mobili e oggetti pronti a finire nelle mani di rigattieri, antiquari e rottamai. Riuscì a salire al piano superiore non visto, ed entrò nella stanza della Signora. Il quadro era ancora lì, e come il bambino di allora, guardando in volto la donna dipinta, le parlò: «So che hai provato ad aspettarmi, con tutte le tue forze. E io ti ho delusa. Ma ho fatto del mio meglio, mi sono laureato mesi prima del tempo e ho trovato subito lavoro. Forse non è tutto perduto, io ho fede in te e in questa casa che sognavi immortale».
Ancora una volta a Matteo parve di vedere un sorriso tra le pennellate rosa che disegnavano la bocca della donna.

Quella sera stessa il grassottello commerciante andò a fare un sopralluogo, e stava parlando agli operai quando si vide correre incontro una figura nera che scivolava sul pavimento. A pochi passi da lui la spaventosa creatura lanciò l’urlo più terrificante che udito umano abbia mai avuto la sventura di sentire, e a quel punto l’uomo la vide in volto. Come in un film dell’orrore gli apparvero le fattezze di un mostro, con occhi di fuoco e denti aguzzi che sembravano pronti a divorarlo. Se mai aveva dubitato sull’esistenza dei fantasmi, da quel giorno dovette ricredersi. Lo spavento fu tale che i suoi capelli diventarono bianchi all’istante, mentre gli operai, che non avevano invece visto niente, si chiesero se fosse impazzito perché scappava più veloce di un fulmine invocando l’aiuto della mamma!

Naturalmente il pover’uomo non volle mai più mettere piede in quello che ormai considerava l’antro dell’inferno, e provò a disfarsi della casa. Tuttavia, la voce che fosse abitata da fantasmi pericolosi ormai si era diffusa ben oltre i confini della città, e nessuno ebbe il coraggio di comprarla. Proprio per il suo animo di commerciante, l’uomo si disperava: il pensiero del pessimo investimento lo uccideva più delle sigarette che aveva ricominciato a fumare dopo lo spavento. Era disposto a svendere l’immobile pur di recuperare un po’ di soldi.

La casa rimase invenduta per altri due anni, fino a quando Matteo, con una cifra modesta, si fece avanti. “Cos’ho da perdere? Alla peggio mi dirà di no” diceva tra sé mentre andava all’appuntamento con il commerciante ‒ quel giorno ‒ per proporgli l’acquisto, consapevole di non offrire molto. Fu sorpreso dal calore con il quale lo accolse l’uomo, che voleva disfarsi al più presto del castello, il peggior affare della sua vita. Quindi accettò la somma che Matteo poteva offrirgli e anzi, gli chiese di firmare subito il contratto per paura che il giovane cambiasse idea. Non poteva conoscere la vera storia di un bambino, di una casa e di una donna che si erano incontrati oltre il tempo e la morte.

Matteo era finalmente il proprietario di “Splendore” e davvero quasi al prezzo di una rimessa. Negli anni successivi diventò un architetto di fama e guadagnò finalmente abbastanza denaro per cominciare i lavori di ristrutturazione. Fece riparare ogni singolo oggetto. Trovò orologiai pazienti che rimisero in funzione gli orologi, sarte provette che ricucirono tendaggi e cuscini, drappi e merletti. I tappezzieri ridiedero vita ai divani e alle poltrone, i muratori più esperti rimisero a nuovo muri e infissi, e Matteo si occupò personalmente di trovare, in giro per mezzo mondo, pezzi originali mancanti uguali a quelli che il tempo aveva distrutto, come le maniglie di porte e finestre. Trovò persino un’officina di stampa artigianale dove commissionò la produzione di carta da parati uguale a quella che decorava i muri, portando come campione qualche brandello rimasto qua e là. A restauratori esperi fu affidato il compito di recuperare i dipinti, a maestri ebanisti i mobili. Lavorarono tutti con insolito fervore: Matteo li aveva contagiati con il suo entusiasmo e aveva raccontato la sua storia, che in fondo era una grande storia d’amore. Ci vollero otto anni e tanti soldi, ma alla fine Splendore tornò alla sua antica bellezza.


Matteo decise di inaugurare la casa in pompa magna e organizzò una festa sontuosa. A nessun invitato sfuggì la sensazione di trovarsi in un luogo magico, che sapeva colmare i cuori di gioia.

Dopo anni felici nel suo palazzo, un mattino di primavera il proprietario vide una giovane ferma davanti al cancello. Era scesa dalla bicicletta e guardava la casa con la bocca spalancata, in completo rapimento. Matteo la osservò a lungo dalla veranda, dove stava consumando il suo tè nelle porcellani inglesi. Riconobbe la stessa meraviglia, la medesima attrazione provata da bambino la prima volta che aveva visto Splendore. Non seppe resistere, si affacciò e invitò la ragazza a entrare. Quando la guardò da vicino ebbe quasi un colpo: somigliava in modo impressionante alla donna del dipinto, la vecchia padrona di casa! Non volle spaventarla rivelando una cosa tanto sconvolgente, quindi offrì una visita guidata ma evitò la camera da letto dove ancora troneggiava il quadro della contessa.


Maria, così si chiamava la ragazza, amò Splendore fin dal primo istante, proprio come accadde a lui, e quasi sembrava riconoscere ogni stanza, ogni angolo e oggetto. Prendeva tra le mani le statuine di Limoges, accarezzava le lampade e sfiorava i tessuti delle poltrone come presa da lontanissimi, nostalgici ricordi. Matteo non si chiese il motivo della straordinaria somiglianza tra Maria e la contessa, né perché alla donna fosse così familiare il palazzo. Amò Maria dal primo giorno, certo che fosse la compagna destinata a lui.


Non si chiese mai nemmeno se le case e gli oggetti abbiano un’anima, miracolosamente generata in loro dall’amore degli uomini. Aveva compreso, o lo sapeva da sempre nell’intimità del suo cuore, che la vita è in ogni atomo, quindi in ogni cosa esistente. Forse addirittura nel pensiero di ogni cosa, prima che sia creata.