LE PAROLE DELL'AMICIZIA
Era un mattino di settembre, uno di quei giorni che precedono la dolce stagione dell'autunno, quando aria e sole diventano carezze sulla pelle, e il cielo si tinge di radioso, intenso celeste.
Maddalena aspirava con piacere il profumo degli oleandri in fiore, delle matite nuove, dei quaderni ancora immacolati. Accarezzava l'astuccio colorato uguale allo zainetto, annusava i nuovi libri di testo con il loro inconfondibile odore di carta e stampa (sì, aveva un naso fine e un particolare trasporto per gli odori, che si trasformava in profonda avversione per la puzza!) e sfogliava il nuovo diario di barbie, naturalmente rosa confetto.
Era eccitata per tutte quelle novità che segnavano l'inizio di una nuova avventura, e la magia si ripeteva ogni anno il primo giorno di scuola.
C'era qualcosa tuttavia che non cambiava mai e rendeva ancora più felice Maddalena: rivedere Sofia, la sua compagna di banco e migliore amica. Ogni estate era motivo di separazione per le bambine perché Sofia trascorreva tutte le vacanze nella sua casa al mare, ma quella che sembrava una dolorosa lontananza si trasformava nel piacere di scrivere lunghe e segretissime lettere.
Sofia raccontava le divertenti avventure marinare e soprattutto parlava del fidanzato, quel bambino che poteva vedere solo due mesi l'anno, ma al quale aveva giurato eterno amore.
Ricevere una nuova lettera dall'amica era per Maddalena il giorno più bello della settimana! Correva in camera sua e, con religiosa attenzione perché non si strappasse, apriva la busta. Leggeva più e più volte le parole scritte sulla carta azzurra profumata di lavanda, poi scriveva la risposta con la bella calligrafia tutta riccioli e svolazzi, avvolta nel delicato aroma di vaniglia della sua carta da lettere rosa.
Quando la campanella squillò, annunciando per aule e corridoi l'inizio delle lezioni, Sofia non era ancora arrivata. Maddalena continuava a fissare la porta, impaziente di rivedere la compagna; perché tardava tanto?
Una ragazzina con le trecce nere e la pelle colore della terra bruciata entrò in aula per ultima. Andò incontro alla maestra, entrambe bisbigliarono qualcosa, la bambina annuì e s'incamminò verso la seconda fila di banchi. Maddalena guardava con gli occhi sgranati quella nuova arrivata che sembrava diretta al suo banco, e quando sedette accanto a lei, nel posto di Sofia, il cuore le fece un balzo in petto! Alzò lo sguardo sulla maestra, quasi a chiedere aiuto, ma l'insegnante ˗ semplicemente ˗ sorrise. Poi annunciò alla classe: «Vi presento Yakamala, è la vostra nuova compagna. Viene da molto lontano, da un paese bellissimo che si trova in un altro continente».
Maddalena ebbe la visione di oceani immensi che l'aereo di Yakamala aveva sorvolato prima di atterrare e portarla ˗ tra tutti i luoghi del mondo ˗ proprio lì, accanto a lei, nel suo banco! Che fine aveva fatto l'adorata Sofia? Si girò verso quella straniera provando la sgradevole sensazione di essere costretta a un sorriso e qualche parola di benvenuto, ma riusciva solo a guardare i suoi grandi occhi scuri che brillavano di pagliuzze dorate. Anche Yakamala guardava Maddalena senza parlare; poi, dopo interminabili istanti di silenzio, disse qualcosa nella sua lingua.
Il disappunto di Maddalena e la sua delusione erano così forti che le veniva quasi da piangere. La nuova arrivata non solo parlava un idioma sconosciuto, ma aveva addosso anche uno strano odore e Maddalena era sensibilissima, come sappiamo, agli odori.
Nei giorni seguenti il malcontento di Maddalena non fece che aumentare perché si aggiunse la sensazione di subire un'ingiustizia: la maestra le aveva affidato Yakamala, era suo quindi il compito di aiutare la compagna quando non capiva qualcosa. Perché una simile sventura era toccata proprio a lei? Passavano le settimane e Yakamala se ne stava sempre sola, in disparte. Nessuno giocava con quella ragazzina timida, forse perché era l'ultima arrivata in un gruppo già unito da quattro anni di amicizia, o forse perché nessuno riusciva a capire le sue parole, tanto incomprensibili non solo nel significato ma persino nel suono. Camminava sempre a testa bassa e bisbigliava appena le poche frasi italiane che aveva imparato.
Durante un compito di matematica, mentre Maddalena svolgeva il suo dovere di aiutare la compagna, vide brillare negli occhi di Yakamala una lacrima. La vide tremolare fra le ciglia e poi cadere pesante sul quaderno. Le parve più che pesante, le sembrò un macigno che bucava il foglio e il suo cuore. Ricordò tutte le volte che si era sentita lei stessa emarginata e sola, quando la mamma era costretta a lasciarla in custodia agli zii, persone sgradevoli che manifestavano affetto solo per i suoi fratelli maschi. Non aveva dimenticato il dolore delle sottili umiliazioni e la tristezza del rifiuto. Il buco nel cuore fece molto male in un primo momento, poi successe un fatto straordinario: si colmò d'amore. E si chiuse.
Aveva imparato, in quelle settimane, ad apprezzare l'odore sconosciuto di Yakamala: era zenzero e cannella. Ammirava i suoi disegni, pieni di colori e sfumature che evocavano sconfinati cieli azzurri e immense vallate, montagne di fuoco e laghi di cristallo; pensò che dovesse trattarsi davvero di un luogo meraviglioso la terra della sua nuova compagna di banco. Trovava graziosi i fiocchi intrecciati in modo originale tra i suoi nerissimi capelli, eleganti le movenze di quella bimba dalla pelle rosso scura, e dolce come musica la sua lingua. Si divertiva molto quando Yakamala tentava di spiegarle i significati di alcune parole nel suo antico idioma, usando la lingua dei gesti, ed era un mimo eccezionale. Un solo termine sembrava descrivere perfettamente l'intera gamma delle sottili emozioni che si provano in una determinata situazione, e a volte le situazioni e le sensazioni evocate erano diverse da quelle che normalmente provava Maddalena, perché le vite, le usanze e le terre delle due ragazzine erano profondamente diverse.
Un giorno Yakamala aveva raccontato a Maddalena che c'è una parola per descrivere cosa prova chi guarda un uccello spiccare il volo e sfrecciare lontano, contro il cielo infuocato del tramonto: l'anima dell'uomo avverte in quell'attimo un profondo struggimento, l'anelito a volare libera per tornare alla sua divina sorgente. Un'altra volta aveva mimato così bene la sensazione di sconvolgente immensità che provoca guardare per la prima volta giù da un grande canyon ˗ anche quella racchiusa in una sola parola ˗ che quasi Maddalena aveva sentito le vertigini, come se fosse davvero lassù, sull'orlo del precipizio! Maddalena aveva capito che molte parole non hanno traduzione e che non è sufficiente imparare la lingua dell'altro, bensì è importante penetrare nella sua cultura e nell'intimità del suo cuore.
Quel giorno sentì che aveva cominciato a conoscere Yakamala, ad apprezzare il grande tesoro della sua diversità e a volerle bene. Yakamala avvertì qualcosa di diverso nel silenzio di Maddalena, che la stava osservando. La bambina della Terra del Fuoco, così era chiamato il suo paese, alzò gli occhi sull'altra. Le due scolare si guardarono a lungo senza parlare, poi Yakamala disse: «Mamihlapinatapai». «Come?» chiese Maddalena. «Significa che io guardo te e tu guardi me, e tutte e due vogliamo fare qualcosa ma speriamo che lo faccia l'altro per primo» disse l'insegnante di sostegno linguistico previsto tre volte a settimana, il quale nel frattempo si era avvicinato alle bambine.
Maddalena pensò che non potesse esistere parola più bella per descrivere esattamente la situazione, e fece per prima ciò che desideravano fare entrambe: abbracciò forte Yakamala. E mentre l'altra ricambiava con calore quell'abbraccio, capirono insieme che l'amore non ha bisogno di parole perché è la lingua che possono parlare tutte le persone della terra. E chissà, forse anche gli abitanti di tutti gli altri pianeti sparpagliati nell'universo.
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La pozione anti mostro
Massimo non aveva paura di niente. Gli piaceva fare l’eroe, essere un paladino della giustizia e avere un codice d’onore. Era leale con gli amici e manteneva sempre la parola data. Per questo, a sei anni, si era conquistato la fama di bambino coraggioso, il più gagliardo della scuola, anzi del quartiere, ma che dico… dell’intera città!
Tuttavia, gelosamente custodito perché non voleva confessarlo a nessuno, nascondeva un terribile segreto: qualcosa c’era che lo spaventava molto! Come ogni supereroe che si rispetti anche lui possedeva un punto debole; il suo erano i mostri.
Massimo non esitava a fronteggiare ragazzi più grandi, come quando gli capitò di pestare un occhio al grosso bullo della scuola che da mesi importunava un bambino fragile e timido.
Da quel giorno il bulletto non aveva più dato fastidio a nessuno e, se incontrava Massimo, cambiava strada. Il bambino timido era corso a casa felice e aveva raccontato tutto alla mamma. La donna, commossa, si era subito messa al lavoro per cucinare la migliore torta della sua vita. Una delizia di crema, panna e frutta alternate a fragranti dischi di pasta frolla, e in cima persino un trofeo di cioccolato fondente! Poi si era presentata a casa del piccolo eroe e gli aveva offerto la torta come segno di gratitudine.
Dovete sapere che le cose non vanno sempre in questo modo, e non sempre le buone azioni ricevono compensi, o meglio, ricompense visibili e immediate. Non bisogna curarsene se accade, ma questa è un’altra storia, e un giorno ve la racconterò.
Dicevamo che il nostro protagonista era proprio coraggioso: alle partite di calcio si buttava nella mischia per conquistare il pallone, non piangeva mai se prendeva gomitate nello stomaco, e non si lasciava sfuggire nemmeno un lamento davanti al dottore dell’ospedale che gli ricuciva, e capitava spesso, le ferite.
Tuttavia… tuttavia quei mostri che lo inseguivano la notte, brrr… che paura gli facevano! Proprio così, le brutte creature che popolavano i suoi sogni erano l’unica paura di Massimo. E, pur di terrorizzarlo per bene, cambiavano persino forma! A volte era un essere gigante a corrergli dietro, con dita lunghe e scheletriche come rami di un albero; altre volte era una figura tutta nera che scivolava malefica alle sue spalle, sempre sul punto di acchiapparlo.
Oppure il mostro di turno assumeva le sembianze di un nanerottolo deforme che sputacchiava liquidi verdastri mentre lo rincorreva nei corridoi di qualche strano luogo, o le fattezze di una belva feroce armata di artigli, intenzionata a papparselo in solo boccone!
Insomma, uno più orrido e più cattivo dell’altro, ma per fortuna il bimbo riusciva sempre a svegliarsi un attimo prima di fare qualche brutta fine.
Un giorno sedeva pensieroso a consumare la merenda nel giardino della scuola, quando sentì un suono di campanello. Din din… si girò e vide una minuscola fata che gli svolazzava vicino all’orecchio sinistro.
Che sorpresa, quasi saltò giù dalla panchina! La creatura atterrò sulla sua spalla, e con molta confidenza imitò la posizione del bimbo: ginocchia al petto e faccia sprofondata tra le piccole mani, come a rimuginare su qualcosa, proprio come stava facendo Massimo. Si burlava forse di lui?
Il bambino voleva guardarla, ma doveva girare tutta la testa per vedere la fata, e temeva che se avesse fatto qualche brusco movimento lei sarebbe scomparsa. Non si sa mai cosa passa per la mente di questi esseri fatati!
«Sono qui per aiutarti» disse lei con voce melodiosa e sottile. Le fate amano due cose, sopra tutte le altre: coltivare fiori e aiutare i bambini, questi ultimi perché devono essere curati proprio come fiori, che sono la loro specialità.
Massimo non aveva mai udito una voce così dolce, e gli fece un gran solletico. «Che tipo di aiuto?» chiese infilandosi un dito nell’orecchio per grattarlo.
«Vincere la paura dei mostri. Posso insegnarti a preparare una pozione capace di annientarli!» «Wow!» esclamò Massimo, che a quelle parole si voltò dando uno scossone alla fata seduta sulla sua spalla sinistra. Tuttavia, dato che notoriamente le fate volano, lei non cadde, gli si posò invece graziosamente sul palmo di una mano, quella che non reggeva la merenda.
Il bimbo poté finalmente vedere bene la creatura e non più soltanto sbirciarla con la coda dell’occhio. Rimase a bocca aperta, con il boccone di panino ancora da deglutire e le labbra ricoperte di briciole. Quanto era bella! Aveva la pelle diafana e rilucente come madreperla, indossava un vestitino fatto d’impalpabili veli celesti, e mentre sbatteva le ali, anch’esse delicate e azzurre, sprizzava nell’aria stelline luminose.
«Mi chiamo Sosinia» disse sventolando vanitosa le lunghe ciglia, perché aveva letto nella mente di Massimo i suoi pensieri di apprezzamento.
«Non startene lì come un salame, su su, che dobbiamo darci da fare!» continuò poi cambiando tono. «Prendi la boccetta e cominciamo a riempirla con tutti gli ingredienti».
«Qui, adesso? E dove la trovo una boccetta?» chiese Massimo un po’ confuso.
«Ma certo, qui e adesso! Non sai immaginare una boccetta? E assicurati che abbia la pompetta a spruzzo come quella dei profumi».
«La devo solo immaginare?» Massimo continuava a non capire.
«Certo che la devi immaginare! Se la immagini poi esiste. Anche i tuoi mostri sono immaginari, eppure ti fanno una gran paura, e ti svegli con una tremarella proprio reale, no?»
Il bambino convenne che Sosinia aveva ragione, così immaginò di tenere tra le mani una boccetta di vetro tonda e dorata, come quella del profumo che il papà aveva regalato alla mamma per Natale. «Oro, il mio colore preferito… Bravo, è perfetta, ora svita il tappo e comincia a metterci dentro quello che ti dico».
Massimo non poteva vedere l’oggetto, ma la fata, essendo magica, ovviamente sì. «Prima cosa: una risata, i mostri detestano che gli si rida in faccia!»
«Come la infilo qui dentro una risata?» chiese il bambino guardando la sua mano destra vuota, a mezz’aria e dischiusa come se reggesse qualcosa, e quasi gli sembrava di sentire il contatto del vetro liscio contro i polpastrelli.
«Porta il flaconcino alla bocca e ridici dentro, è facile!»
Massimo si guardò intorno, se qualcuno lo avesse visto fare quelle cose lo avrebbe preso per matto. Decise di obbedire alla fata senza più discutere, quindi soffiò una risata nella boccetta immaginaria. «Bene, ora tanta luce abbagliante, i mostri non possono vivere alla luce».
Massimo visualizzò un raggio di sole luminosissimo che entrava nel flacone.
«Adesso infilaci due abbracci e tre baci. Queste cose li fanno scappare a gambe levate, i mostri!» Facile ingrediente; al bambino bastò ricordare gli abbracci gioiosi e i baci con lo schiocco che gli dava sempre la zia.
«Dunque, vediamo un po’, cosa manca? Ah sì, uno sberleffo. Le burle li fanno rimpicciolire».
Altro ingrediente facile, nessuno sapeva fare gli sberleffi meglio di lui!
«Ora due orecchie da topolino e un naso da porcello: servono a farli diventare mostriciattoli minuscoli e divertenti!»
Il bambino possedeva quegli oggetti da travestimento per il carnevale, e ancora una volta gli fu facile immaginarli e mescolarli a tutto il resto.
«Ora il colpo mortale: un pizzico d’amore. È il più potente fra tutti gli ingredienti, ne basta giusto un pochino».
Quello proprio non sapeva come metterlo nella pozione e non era necessario fare domande, bastò la sua espressione interdetta a dire alla fata che si trovava in difficoltà.
«Immagina la persona che ami di più al mondo e l’amore che provi per lei, poi prendi un pochetto di quel bene e mettilo nel flacone» spiegò Sosinia con un sorriso tenero tenero.
Non era difficile in effetti, perché Massimo immaginò la sua mamma, e alla fine ebbe il timore di avercene messo anche troppo di amore nel miscuglio, perché l’amore per la mamma era troppo grande per riuscire a dosarlo!
«Fantastico! Tappa bene il contenitore e agita tre volte, è fatta!» La fata volteggiò nell’aria diffondendo stelline colorate ancora più luminose: era il suo modo di manifestare la felicità.
«Ora vai, e usala senza riserve; è una mistura magica, quindi è inesauribile, durerà per sempre. Ricorda però una cosa: i mostri si nutrono di paura, è il loro richiamo e il loro cibo. Senza la paura non esisterebbero nemmeno».
Svolazzò un’ultima volta davanti al piccolo amico e poi scomparve.
Massimo aspettò a lungo l’arrivo dei mostri nei suoi sogni. Per la prima volta quasi si augurava di incontrarli, perché voleva sperimentare la pozione magica. Però chissà, forse nel mondo dei mostri si era sparsa la voce che possedeva un antidoto, e forse bastava quella notizia a tenerli lontani!
Finché una notte uno di loro osò presentarsi, orribile e cattivo come non mai. Tutto verde e con gli occhi gialli, sembrava l’incrocio tra un drago, un diavolo e un coccodrillo, e sputava fuoco da una bocca che aveva quattro fila di denti aguzzi. Come da copione cominciò a inseguire il bambino, ma quella volta Massimo non se la diede a gambe terrorizzato; corse via aspettando solo il momento giusto per voltarsi e spruzzare la magia addosso all’infernale apparizione. Aveva un po’ di paura, naturalmente, quello era uno dei peggiori mostri che avesse mai visto!
Quando la creatura fu sul punto di raggiungerlo, fece appello a tutto il suo coraggio e si voltò: poff poff poff, tre spruzzi in pieno muso! Pochi istanti dopo l’essere iniziò a rimpicciolire, poi gli crebbero le orecchie da topo e il suo naso diventò schiacciato e rosa come quello di un maialino.
Una volta ridotto in quello stato, le risate e gli sberleffi lo colmarono d’imbarazzo e di vergogna, gli abbracci e i baci lo spaventarono a morte, ma ciò che lo indusse infine a scappare fu quel profumo d’amore che per lui non era affatto un profumo, bensì un olezzo insopportabile!
La magica pozione aveva funzionato! Massimo rideva a crepapelle mentre il mostro, oramai più che altro un mostriciattolo ridicolo, se la dava a gambe gemendo di terrore, col sedere spelacchiato e fumante bruciato dal raggio di sole.
Quando si svegliò rideva ancora, e nel bagliore delle prime luci del mattino che filtravano dalle persiane chiuse, intravide la fata celeste. Svolazzava e rideva insieme al bimbo con gorgheggi tintinnanti come campanelli d’argento.
Apprendisti maghi
Medardo scalciava le gambe di ferro del banco mentre rovistava nello zaino. Gli era venuta in mente una modifica per il suo motore alimentato a patate e stava cercando il foglio con il progetto, doveva lavorarci subito! Intanto inclinava la sedia facendola sbattere contro il banco del compagno di scuola ˗ quello dietro di lui ˗ per vedere dalla finestra il passaggio di un Boeing 777 che si annunciava brontolando alto nel cielo.
«Medardo, hai deciso di farmi impazzire anche oggi?» La maestra era seccata da tutto quel rumore durante la lezione di aritmetica.
«No signora maestra!» rispose con sincerità Medardo. Non aveva intenzione di dare fastidio, non lo stava mica facendo apposta, ma proprio non riusciva più a stare fermo in quello spazio angusto tra il banco e la sedia. Inoltre aveva delle cose da fare!
«Gioele, ci fai l'onore di tornare tra noi?»
Gioele non aveva sentito una parola della lezione, né il richiamo dell'insegnante rivolto a lui. In effetti ˗ da molti minuti ormai ˗ osservava un pettirosso planato sul davanzale della finestra. Gli sembrava che la deliziosa creatura girasse la testolina a destra e a sinistra per guardare proprio lui, prima con l'occhio destro e poi con quello sinistro. Arruffava le piume e si scuoteva tutto come se avesse i brividi, chissà se aveva freddo e fame?
«Gioele!» L'intera classe scoppiò a ridere, e quando Gioele uscì dai suoi pensieri con un sussulto ˗ al secondo e più forte richiamo della maestra ˗ si accorse con imbarazzo che tutti lo stavano guardando.
Tutti tranne Medardo, il quale invece approfittava di quel momento per nascondere il suo prezioso disegno, prima che alla maestra venisse l'idea di confiscarlo. L'insegnante sembrava più spazientita del solito quel giorno, e Medardo era preoccupato perché se si fosse lamentata ancora una volta di lui con mamma e papà, avrebbe passato un guaio! Il bambino non riusciva a capire cosa c'era di tanto sbagliato nel suo comportamento, tuttavia ogni cosa che faceva sembrava appiccicargli addosso sempre più l'etichetta di ribelle. Lo zio e la zia non perdevano occasione, durante gli spinosi pranzi della domenica, per ribadire quanto fosse pestifero e inadeguato. Naturale che provasse ogni volta la sensazione di sedere sopra le spine! La mamma elencava ˗ davanti a tutti e con la voce lamentosa di una vittima ˗ le sue marachelle della settimana, il papà vagheggiava su punizioni sempre più severe e il resto dei parenti scuoteva la testa con disapprovazione.
I genitori lo avevano portato persino dal dottore, uno strano tipo che faceva troppe domande, un vero ficcanaso! Alla fine il medico gli aveva prescritto una medicina magica che doveva farlo diventare buono, ma che lo faceva sentire sempre stanco e ansioso. Quindi... forse era davvero cattivo come tutti dicevano? Un bambino buono resta seduto nel banco, ascolta la maestra ed è obbediente.
Medardo ˗ al contrario ˗ detestava le lunghe ore di scuola e temeva che una volta o l'altra gli si sarebbero paralizzate le gambe! Di tutto quello che diceva la maestra era interessato solo ai racconti storici degli eroi perché anche lui voleva essere un eroe, un paladino dei più deboli, e dava all'onore e all'amicizia il primo posto nella scala dei suoi valori. Infine trovava inutili certe attività che gli imponeva il padre: aveva cose molto più importanti alle quali dedicare il suo tempo, come l'invenzione di nuovi motori o programmare una spedizione avventurosa in Amazzonia per la ricerca di combustibili alternativi.
Anche Gioele aveva un sacco di problemi a scuola e in famiglia. A lui non piaceva parlare; amava riflettere sulle cose, interrogarsi sui misteri dell'universo, osservare le stelle. Quindi era sempre assorto ma ˗ sfortunatamente ˗ agli altri sembrava invece un po' tonto. Lo sembrava a scuola perché l'unica via di fuga del bambino da quel luogo poco interessante era vagare altrove con la mente, e lo sembrava ai genitori. Il padre si dava da fare per "svegliare" il figlio, e lo trascinava alle partite di calcio o a qualche gita in motocicletta. Tuttavia Gioele detestava quel tipo di cose, e detestava ˗ come Medardo ˗ le riunioni familiari, dove i parenti parlavano di lui come se non fosse presente, oppure tanto sordo o stupido da non sentire la loro parole colme di delusione.
Ma Gioele sentiva tutto, ohhh se sentiva! Sarebbe potuto andare in estasi nell'annusare una rosa, o cadere in ginocchio sopraffatto dalla bellezza di un tramonto. O avere il cuore a pezzi alla vista di un'ingiustizia. Anche se pareva molto diverso da Medardo, aveva in comune con lui l'amore per gli eroi della storia e ˗ come il compagno ˗ nella sua scala dei valori l'amicizia e l'onore erano al primo posto. Anche Gioele aveva subito "l'interrogatorio" di un dottore e anche lui doveva prendere una medicina magica, ma quella pasticca gli faceva venire attacchi d'ansia tremendi. Chissà, forse avevano ragione tutti quanti, forse era davvero uno scemo! I bambini intelligenti parlano molto, anzi gridano per sovrastare le voci degli altri, sono assi dei videogiochi e amano lo sport. E lui non era come loro.
«Lara!» La maestra ora richiamava l'attenzione di un'alunna. «Oggi dovrò prendere un'aspirina a causa vostra!» disse la donna toccandosi la fronte con il palmo di una mano. Lara era la bambina più eccentrica della scuola. Come Medardo non stava mai ferma e come Gioele si estraniava al punto che nessun richiamo avrebbe potuto farla tornare dai misteriosi viaggi della sua mente.
Quando la maestra aveva urlato il suo nome, Lara non poteva sentirla perché era volata con la fantasia nel castello di una fattucchiera e riceveva istruzioni su magie di guarigione. Così avrebbe potuto guarire la nonna che era tanto malata!
Come i compagni di scuola Medardo e Gioele, anche la bambina non aveva alcun interesse per le lezioni della maestra, ma lei lo diceva forte e chiaro. Esprimeva sempre le sue opinioni, tuttavia sapeva dire le cose con un tale garbo e dolcezza, con un dosaggio così sapiente di autorevolezza e rispetto mescolati insieme, da non essere mai odiosa. Non si poteva detestarla ma nemmeno domarla.
I genitori avevano tentato di portare anche lei da un dottore, ma non c'erano proprio riusciti perché Lara si era ribellata dando spiegazioni sensate e risolute. Nonostante tutto, nemmeno Lara aveva una vita facile e si sentiva un'aliena in mezzo a un mondo di umani troppo diversi da lei. Dov'erano gli eroi pieni di quel senso dell'onore che le apparteneva e che sentiva prorompere dal cuore? Il suo disagio era esattamente lo stesso provato da Medardo e da Gioele.
ll giorno seguente, un altro giorno di scuola, poteva sembrare un mattino come tanti, ma la luce e i colori avevano una brillantezza speciale, e un cielo così limpido Medardo, Gioele e Lara non lo avevano mai visto! Quel giorno entrò in aula anche l'uomo più strano che i tre bambini avessero mai incontrato. Invece della solita maestra un po' trafelata, arrivò, con incedere lento e maestoso, una figura altissima, barbuta e vestita di nero. Il chiasso degli alunni cessò di colpo, e nel silenzio generale l'uomo andò a sedersi alla cattedra.
L'attenzione di tutti fu catturata dalla foggia del suo copricapo, una sorta di piramide tronca impreziosita da minuscoli simboli d'oro. «La maestra è malata, sono il vostro supplente» disse con una voce profonda, tonante e melodiosa al tempo stesso. I bambini non risposero, ancora sorpresi ma soprattutto impressionati dall'aspetto di quello strano insegnante.
Non si sarebbe potuto dargli né un'età né una razza; sembrava vecchio ma aveva movenze da giovane, e sembrava occidentale ma aveva gli occhi da orientale. La cosa più inquietante erano le mani dalle dita insolitamente lunghe, simili ai rami scheletriti di un albero. Inoltre la sua altezza era quasi smisurata. Nell'insieme faceva davvero paura! Quando si levò in piedi e si avvicinò a un alunno in prima fila, il ragazzino sprofondò sotto il banco.
«Cosa vi stava insegnando ieri la maestra?» chiese il supplente allungandosi verso l'alunno. Il bimbo, spaventatissimo, balbettò qualcosa senza senso. L'uomo allora girò lo sguardo attorno in attesa della risposta da qualcun altro. Sembrava una sfida: chi aveva il coraggio di parlare per primo a quel personaggio tutto nero? Pareva che nessuno avrebbe mai vinto la gara perché tutti i bambini erano impietriti; tutti tranne quelli che si erano rifugiati sotto i banchi, naturalmente! E tranne Medardo, Gioele e Lara che lo stavano guardando affascinati.
Il supplente si avvicinò a Gioele e ripeté la domanda. Il bambino lo guardò intensamente e quasi gli occhi gli si riempirono di lacrime. Stava provando affetto per uno sconosciuto! Doveva essere impazzito! O forse non era uno sconosciuto?
«Aritmetica...» disse con una voce limpida e forte come non aveva mai tirato fuori dalla propria gola! «E quale operazione di aritmetica stava spiegando la tua maestra?» replicò l'uomo.
«Non lo so signore» rispose candidamente Gioele. «Non ero attento».
«Humm... certamente la natura è molto più interessante. I pettirossi ad esempio sono creature straordinarie, così carini eppure tanto battaglieri...»
Il supplente non finì la frase e già si dirigeva verso il banco di Medardo. Gioele era interdetto. «Come faceva a sapere che mi ero distratto guardando un pettirosso?» pensò.
«Tu sai dirmi qualcosa di più preciso?» disse l'insegnante rivolto a Medardo.
«No signore, ero distratto anch'io...»
Mentre alzava lo sguardo su di lui, il bambino provò l'assurda sensazione di aver già incontrato quello strano personaggio, chissà dove e chissà quando. In realtà sapeva bene di non averlo mai visto prima, non dentro il mondo reale perlomeno!
«Certo certo, è ovvio, il tuo veicolo aveva bisogno di essere perfezionato prima di partire per un viaggio tanto lungo...»
«Come sa del disegno e del progetto sul mio viaggio?» pensò Medardo con l'espressione più stupita del mondo.
L'insegnante ora si era fermato davanti al banco di Lara che lo stava guardando negli occhi e sembrava ipnotizzata.
«Tu cosa sai dirmi circa la lezione di ieri?»
le chiese quell'uomo così alto che svettava quasi fino al soffitto dell'aula.
«La maestra ci ha insegnato l'addizione, ma stavo pensando ad altro...» rispose Lara, anche lei con lo stesso sincero candore dei suoi compagni.
«Humm... certo è più urgente apprendere la magia. Tua nonna ha la precedenza...»
Inutile dire che anche Lara rimase di stucco. Il supplente della maestra le leggeva nel pensiero!
«Bene ragazzi, andiamo a fare lezione di aritmetica nel bosco!»
A quel comando si alzarono tutti per seguire l'insegnante che stava già uscendo dall'aula. Medardo, Gioele e Lara si guardarono a vicenda interdetti. Nessuno di loro aveva mai visto un bosco nelle vicinanze! Tuttavia, appena fuori dall'edificio ˗ dove prima c'era solo cemento ˗ eccolo lì il bosco, tenebroso, invitante e misterioso. Accipicchia, esisteva davvero!
Come se lo strano insegnante li chiamasse telepaticamente, i tre ragazzini gli andarono dietro, e tenendosi per mano s'inoltrarono dentro la vegetazione sempre più fitta. Gli altri compagni di classe erano da qualche parte, ma sembrava che non esistessero più, c'erano solo Medardo, Gioele, Lara e lo strano maestro.
Quando L'uomo si sedette ai piedi di una grande quercia, i tre bambini si accovacciarono davanti a lui come tre piccoli discepoli.
«Dunque facciamo lezione adesso. Medardo, dovrai calcolare la lunghezza del tuo viaggio. Con questa speciale carta geografica puoi sommare le distanze delle tappe intermedie che avevi deciso. Luoghi molto interessanti!»
A quelle parole tirò fuori da una manica del vestito nero una carta geografica arrotolata. Quando Medardo la prese e la srotolò poté considerare che non ne aveva mai vista una simile! Se metteva il dito tra una città e l'altra, compariva la distanza chilometrica; se toglieva il dito, il chilometraggio spariva! Era anche indicata la profondità dei mari e degli oceani, che si rendeva visibile dove sceglieva di toccarli. Tuttavia, la cosa più stupefacente erano i puntini lampeggianti che segnalavano la presenza di tesori nascosti e terre sprofondate in un lontanissimo passato!
«Gioele, qui ci sono tutte le costellazioni della nostra galassia. Vorrei che tu mi dicessi quante sono in totale». L'uomo diede al bambino un libro dalle pagine color lapislazzulo; quando Gioele sfiorò le immagini delle stelle, queste si accesero! Apparivano anche i nomi delle costellazioni e la storia leggendaria legata a ciascuna di loro. Il ragazzo era già in cielo dalla felicità! Ora avrebbe potuto scoprire per quale motivo, ad esempio, l'orsa maggiore si chiamava in quel modo, e chi erano le dee e gli dei coinvolti nella vicenda. Tutto questo mentre imparava l'addizione!
«Ecco un libro di magia, Lara. La ricetta per guarire i polmoni di tua nonna è a pagina milleseicentodiciotto. D'ogni foglia, fiore o radice vi è scritta la quantità. Vorrei sapere quanto peseranno in tutto le erbe della pozione. Naturalmente prima di metterla a bollire!»
L'uomo sorrise e allungò alla bambina il libro, anche quello sfilato da una manica. Lara non poteva credere ai suoi occhi: se toccava una ricetta le illustrazioni delle piante diventavano tridimensionali, come fossero vive. Sembravano talmente reali che quasi profumavano di rugiada! Certamente in quel modo poteva imparare tante pozioni magiche e a distinguere le piante, mentre si esercitava in aritmetica!
Quando la mattina giunse al termine, il più bizzarro maestro del mondo salutò i bambini con una strizzatina d'occhio e scomparve. Con lui sparirono anche gli incredibili testi scolastici sui quali i piccoli discepoli avevano studiato nel bosco.
Il mattino seguente avevano tutti e tre una gran fretta di tornare a scuola, riuscendo a stupire non poco i genitori, abituati a doverceli portare quasi con la forza! Tuttavia, quando Medardo, Gioele e Lara videro varcare la porta dell'aula dalla loro solita maestra, ebbero un moto di delusione; avevano proprio sperato di passare altro tempo con il fantastico supplente. Era guarita troppo in fretta la maestra! Lara chiese gentilmente alla donna se si sentiva meglio, dopo la sua malattia.
L'insegnante parve molto stupita: «Io non sono stata male!»
Medardo balzò in piedi e disse: «Ieri è venuto un supplente, signora maestra, perché lei era a casa ammalata!»
«Non dite sciocchezze bambini, ieri stavo benissimo ed ero qui con voi, in classe!»
A quelle parole Medardo, Gioele e Lara si guardarono a vicenda quasi sconvolti. Cosa stava succedendo? Avevano fatto tutti e tre lo stesso sogno? Corsero fuori tacitamente d'accordo: dovevano verificare se il bosco c'era ancora, e forse avrebbero visto di nuovo l'insegnante, seduto sotto la quercia! Quando raggiunsero il piazzale dell'edificio trovarono solo cemento. Del bosco e della magnifica giornata di scuola pareva non esserci più traccia, se non nella loro memoria. Chi era dunque l'uomo che si era spacciato per supplente? Si trattava forse di un Mago? I tre bambini non avevano una spiegazione, ma da quel giorno divennero grandi amici perché condividevano un incredibile segreto. Medardo non pensò mai più di essere un ribelle, né Gioele un tonto o Lara un'aliena! Da quel giorno seppero di essere semplicemente bambini molto speciali, probabilmente degli apprendisti Maghi!
Il proiettore magico
Linda Riccioli Rosa, così chiamata per le inconsuete sfumature rosa dei suoi biondissimi capelli, era una bimba di sei anni molto vivace che amava fare un sacco di cose. Anzi, le piaceva fare quasi tutto, e tutto è tanto, quindi non stava mai ferma! Naturalmente aveva delle preferenze e tra queste, a pari merito con il prendersi cura di animali abbandonati e girare per i boschi alla ricerca di elfi, gnomi e fatine, c’erano gli spettacoli di magia. Quella di Linda per i maghi era una vera ossessione, e ogni volta che ne arrivava uno in città chiedeva ai genitori di accompagnarla a vedere la sua esibizione. Qualche volta il papà e la mamma di Riccioli Rosa erano disposti anche a percorrere molta strada per compiacere la figlia, se un illusionista faceva i suoi numeri di magia in qualche città lontana. Erano proprio dei bravi genitori perché avevano cura delle passioni della loro bambina.
Per Linda non si trattava di capricci infantili, bensì di una cosa molto seria: stava facendo una ricerca e avrebbe cercato fino in capo al mondo. In verità lei non sapeva bene dove fosse un luogo in capo al mondo, ma era di certo lontanissimo, quindi non vedeva l’ora di crescere per poterci andare. Tra i tanti illusionisti più o meno bravi, era sicura che prima o poi sarebbe riuscita a trovare un mago, un mago vero! Una sera doveva esibirsi in città un certo Zoroar, sul quale la bambina non era riuscita a ottenere alcuna informazione, perché nessuno aveva mai sentito parlare di lui. Quando Linda arrivò con i genitori davanti al teatro dove l’artista avrebbe fatto lo spettacolo, accadde un fatto sorprendente: il grido acuto di un falco lacerò d’improvviso la quiete della sera, poi l’uccellò planò in direzione della bimba, fece tre rapide circonvoluzioni sfiorando i suoi riccioli rosa e si posò sopra un lampione. Il padre prese Linda in braccio con uno scatto fulmineo, pensando di proteggerla dall’aggressione di un volatile impazzito. Cosa diamine ci faceva un falco in città? La mamma ebbe quasi un malore per lo spavento! Mentre Riccioli Rosa era ancora in braccio al padre, alzò lo sguardo, ma il falco aveva già ripreso quota, e volava ormai lontano, invisibile nel cielo blu della sera. Appollaiato sullo stesso lampione c’era adesso un corvo: girava la testolina nera, e sembrava osservare proprio lei con il suo occhio destro.
I genitori erano ancora bianchi come lenzuola quando si sedettero nelle poltroncine della prima fila dentro la bella platea del teatro. A Linda tremolavano le gambe, ma non di paura: aveva appena ricordato il sogno della notte precedente, lo stranissimo sogno nel quale si era perduta in un bosco buio dove aveva incontrato un falco e con un corvo parlanti! Peccato che non riuscisse a ricordare il suo dialogo con i pennuti! Eccitatissima per quelli che le sembravano dei segni o degli importanti presagi, respirò profondamente, così da riuscire a rallentare i battiti del cuore e concentrarsi sullo spettacolo che stava cominciando. L’esibizione di Zoroar si annunciò spettacolare, quando apparve sul palco dal nulla! Linda osservò con attenzione ogni movimento, ogni gesto dell’artista alla ricerca di un indizio, come faceva ogni volta. Non sapeva bene cosa cercare e quale dovesse essere l’indizio giusto, tuttavia era fiduciosa: in qualche modo avrebbe capito come riconoscere un mago vero, una volta che se lo fosse trovato davanti! Le parole del padre non riuscivano a scalfire la fiducia di Riccioli Rosa nemmeno quando le diceva, con una logica schiacciante, che i veri maghi non si esibiscono come semplici prestigiatori; di certo hanno di meglio da fare! I bambini però sanno molte più cose degli adulti e Linda sapeva che la magia non è logica, perlomeno non è soggetta alla logica dei comuni mortali. Se da qualche parte esisteva un mago, avrebbe saputo che lei lo stava cercando quindi, prima o poi, si sarebbero incontrati. Questa è la logica dei veri maghi! Doveva soltanto perseverare, con pazienza e fiducia.
Zoroar si dimostrava molto bravo, anzi, a dir poco eccezionale. Faceva apparire le cose senza usare casse, cilindri o specchi, gli arnesi normalmente usati dai suoi colleghi. Aveva solo una bacchetta di legno che agitava dicendo “Abracadabra” e puff… oggetti d’ogni sorta apparivano dal nulla! Orologi da taschino, quadri, libri, persino un mappamondo e persino un coniglietto si materializzarono nell’aria, uno dopo l’altro. Se si trattava di un trucco, era il migliore che Linda avesse mai visto, e certamente lo pensavano tutti, dato l’incessante scrosciare di applausi del pubblico! Al termine di ogni spettacolo al quale aveva assistito, Riccioli Rosa chiedeva immancabilmente di essere accompagnata a conoscere l’artista. Non era mai riuscita a smascherare un solo trucco, ma gli illusionisti che aveva incontrato fino a quel momento erano stati sinceri. Dichiaravano tutti apertamente che si trattava di geniali inganni, e più erano sensazionali e incomprensibili gli inganni, più loro si dimostravano dei bravi professionisti. Quella sera tuttavia le cose andarono diversamente. Dopo l’inchino di commiato al pubblico, Zoroar si drizzò in una postura altera, con le braccia incrociate sul petto. Nel vederlo così regale, avvolto nella tunica celeste ricamata in oro, la bambina pensò che l’uomo sembrasse appartenere a un altro mondo. E mentre il sipario si chiudeva, il mago le fece l’occhiolino. «Andiamo papà!» esclamò Linda balzando in piedi dalla sua poltroncina di prima fila. Aveva fretta di incontrare Zoroar e di parlare con lui. Afferrò quindi la mano del padre e lo trascinò quasi di corsa lungo il corridoio sotterraneo che conduceva ai camerini, dove gli artisti cambiano gli abiti di scena. Se vi state chiedendo come facesse Linda a conoscere la strada per arrivare ai camerini, dovete sapere che c’erano belle, lucide piastre d’ottone con le indicazioni, vitate ai muri del teatro. E Riccioli Rosa era brava a trovare le indicazioni di un percorso! A pochi passi dalla porta dello stanzino di Zoroar, la bambina udì un bisbiglio, una sorta di eco appena percettibile che sembrava rimbalzare da una curva all’altra del corridoio circolare, e che diceva: «Vieni Riccioli Rosa, vieni da me…» Le si accapponò letteralmente la pelle e strinse più forte la mano del padre. Dovette di nuovo respirare lentamente e profondamente per riuscire a calmarsi e scacciare la paura. Aveva imparato questo esercizio e lo usava ogni volta che un’emozione avrebbe potuto annebbiare la lucidità della sua mente. E funzionava! Infatti si tranquillizzò anche quella volta, ma… quella volta solo un pochino, perché si trattava di un momento davvero speciale e troppe cose strane stavano succedendo! Quindi, dopo aver bussato e ricevuto risposta, entrò nel camerino di Zoroar.
L’uomo accolse la bambina con un largo sorriso e sorprendentemente disse: «Sei venuta a chiedermi se sono un vero mago, Riccioli Rosa?» Linda sgranò gli occhi su di lui e balbettò un sì. Zoroar Conosceva il suo soprannome, era un buon inizio! «Potrai conoscere la verità solo se risolverai un enigma» replicò il mago. Poi fissò Riccioli Rosa con uno sguardo ipnotico e propose l’indovinello: «Quando nasce illumina il mondo, e il suo calore è accogliente e fecondo. Non può morire, ma quando si oscura cala una notte di freddo e paura». Linda cominciò a sudare. Con una risposta sbagliata avrebbe perso l’opportunità di sapere se Zoroar fosse l’ennesimo illusionista oppure un uomo realmente capace di fare magie. Era a un passo da quello che cercava con tanto ardore e anche a un passo dal perderlo. Si trattava forse del… Sole? Sembrava una risposta scontata. La mente della bambina cominciò a turbinare di mille caotici pensieri fino a quando si fermò sulle immagini di un ricordo: il nonno sdraiato sul letto di morte, negli ultimi istanti di vita. «Non piangere piccina mia» le aveva detto mentre stringeva la sua mano. «Ricorda tutte le cose belle che abbiamo fatto insieme, le nostre gite al parco e allo zoo, le cioccolate calde d’inverno, le nostre risate e i nostri piccoli segreti. Tutto questo non andrà perduto, resterà per sempre nel tuo cuore». Linda ebbe un moto di commozione. In quel momento capì che il nonno l’aveva illuminata con i suoi preziosi insegnamenti, scaldata con il suo affetto e accolta nei momenti difficili, e quello che sarebbe davvero rimasto per sempre, ciò che non poteva morire mai, era tutto l’amore che le aveva dato. Senza riflettere chiedendosi se stava per dire la cosa giusta gridò: «L’amore!» «Brava Linda!» esclamò Zoroar, che conosceva anche il nome della bambina oltre al soprannome. «Hai meritato il tuo premio». A quelle parole, nella mano destra di Linda apparve una bacchetta di legno di nocciolo tutta intarsiata e con la punta in oro. Un oggetto magnifico. La bimba rimase a lungo con la bocca spalancata, incapace di parlare davanti a quel miracolo. «Naturalmente è una bacchetta magica», aggiunse il mago con un sorriso complice. Linda si riprese dalla meraviglia e pose la cruciale domanda, anche se oramai conosceva la risposta, o meglio, credeva di conoscerla. «Tu sei un vero mago, è così?» L’uomo, sorprendentemente, rispose: «Sì, ma lo siamo tutti, anche tu!» Questo proprio non se lo aspettava la piccola Riccioli Rosa! «Io non so fare le magie, non sono capace di far comparire le cose!» replicò. «Ohhh, sì, invece. Hai un proiettore magico dentro di te, ed è nascosto nel cuore. Devi solo sapere come si accende, e lui proietterà quello che desideri, facendolo diventare realtà. La vita è come la proiezione di un film, e tu devi essere la regista del tuo film perché sia come lo vuoi! Quando vai al cinema, non guardi una pellicola a caso, giusto? Scegli una storia che ti piace, che ti appassiona. La stessa cosa puoi fare per quanto riguarda la tua vita: scegli una storia che ti appassiona, e sarai tu a crearla!» «Come si accende il proiettore magico?» chiese Linda confusa, perché non riusciva a capire come la vita potesse in verità essere un film.
«Si accende con il desiderio, la volontà, la perseveranza e la fede. Devi sapere cosa vuoi, desiderare davvero ma proprio davvero ciò che vuoi, lavorare per ottenere quello che vuoi, e avere fede che l’otterrai». «Se riuscirò ad accendere il mio proiettore, allora diventerò una maga?» «Come ho detto, sei già una maga, devi semplicemente usare i tuoi poteri!» Linda rimase in silenzio qualche istante perché aveva mille domande nella testa e voleva fare quelle giuste. Il grande medaglione rotondo appeso al collo di Zoroar catturò nel frattempo la sua attenzione per la bellezza dei ghirigori che sembravano fili e nodi intrecciati e per la lucentezza dei tre cavalli incisi nell’oro. «Questi tre cavalli identici e legati tra loro dai nodi magici rappresentano il corpo, la mente e lo spirito che devono essere in armonia tra loro» disse Zoroar per soddisfare la silenziosa ma evidente curiosità della bambina circa il suo pendaglio.
«Perché il proiettore si trova dentro il cuore?» chiese Riccioli Rosa, e forse aveva azzeccato una buona domanda, perché il mago a quel punto assunse l’espressione di chi pondera la risposta. «Perché non funzionerà, non proietterà nulla se ciò che decidi di volere non è anche quello che desidera davvero il tuo cuore. O se non è un desiderio buono che possa diventare un reale vantaggio per te e anche per gli altri. Il cuore ha una mente saggia e lo sa cosa è bene che si realizzi oppure no. Per tutti questi motivi, è nella mente del cuore che ha sede il proiettore!». Il cuore ha una mente saggia, esiste un proiettore magico che fa realizzare i sogni, bisogna diventare i registi della propria vita… Linda tentava di assimilare tutte quelle incredibili rivelazioni. «La bacchetta magica allora a cosa serve?» chiese rigirando tra le mani il prezioso bastoncino che il mago aveva fatto apparire. «Ohhh, quella? Ciò che conta in un mago è la qualità della sua intenzione. La bacchetta serve solo a concentrare e dirigere l’energia dell’intenzione. E naturalmente a fare un po’ di scena…» rispose Zoroar. Fece di nuovo l’occhiolino a Linda e sorrise gioviale. Quando Riccioli Rosa uscì dal camerino del mago appariva radiosa e volò in braccio al padre che la stava aspettando fuori dalla porta. L’uomo non aveva mai visto la figlia tanto felice, così le domandò: «Allora, tesoro, com’è andata? Hai finalmente trovato il tuo mago?» Linda rispose di sì al colmo della gioia più scoppiettante e dell’emozione più intensa, con il cuore che le batteva fortissimo. Voleva tenersi quell’emozione, perché era meravigliosa, quindi non fece i suoi respiri profondi: non c’è bisogno di rallentare i battiti del cuore quando batte forte di felicità! «Bene bene!» replicò il padre contento. Raggiunsero la mamma che li aspettava al bar del teatro e sorseggiava un tè. «Mamma, mamma, ho trovato un mago vero!» gridò Riccioli Rosa correndo ad abbracciare la sua mamma. «Finalmente!» esclamò la donna con un sorriso, e ammiccò verso il marito con un fare di complicità. Da quel gesto appena percettibile Linda capì che i genitori non le credevano. Questo fatto tuttavia non diminuì la gioia che provava, né la gratitudine verso di loro che si erano tanto prodigati affinché realizzasse un sogno tutto suo. Lo sapeva già che la maggior parte degli adulti non crede alla magia!
Nel piazzale del teatro, appollaiati su due lampioni, il falco e il corvo aspettavano Riccioli Rosa. Quando la bimba li vide, capì che i due pennuti l’avrebbero in qualche modo accompagnata attraverso tutti i boschi bui della sua vita. Accompagnata in modo fatato e misterioso, naturalmente! Il falco, grazie alla sua vista, sarebbe stato una preziosa guida; il corvo le avrebbe insegnato a non temere le cose oscure e anche a diventare invisibile nel momento del pericolo. Non disse altro per convincere papà e mamma che i maghi esistono davvero. Aveva già imparato la prima grande legge di ogni mago: il silenzio è d’oro perché conserva la potenza di ogni magico pensiero. In silenzio, quindi, si adoperò per capire come accendere nella sua vita il proiettore magico…
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L'Amore più grande
Le feste di Natale volgevano al termine. La casa era immersa in un "luccicoso" disordine di carta da pacchi colorata, allegri fiocchetti, candele consumate per metà e palline scintillanti appese ovunque. Il rosso, l'oro e l'argento delle decorazioni, delle tazze e persino dei confetti sui pasticcini, rendevano magica l'atmosfera con le loro frequenze mistiche e festose.
Nonno Moschino se ne stava beatamente acciambellato sulla sua poltrona preferita. Aveva quel nome dalla nascita, per via della macchia nera sul muso bianco. Era stato il più gracile della cucciolata, un mucchietto striminzito di ossa e pelo con una buffa moschina sul naso, e nessuno ci avrebbe mai scommesso che sarebbe diventato un così bel gattone!
Mentre nonno Moschino pisolava, i suoi nipoti cuccioli Mimi, Bibi e Chichi aspettavano l'arrivo della befana, ipnotizzati dal fuoco crepitante del camino, sul quale erano appese calze rosse gonfie di mistero. Soltanto quando la vecchia signora fosse apparsa avrebbero potuto svuotare le calze e sapere quali doni contenevano! L'attesa era trepidante, però al tempo stesso carica di timore.
I tre micetti si chiedevano se sarebbe arrivata all'improvviso, sfrecciando sulle loro teste a cavallo della scopa. Chissà se sghignazzava e faceva dispetti; in fondo era una strega!
Quell'ansia leggera ma quasi palpabile, rendeva insolitamente silenziose le tre piccole pesti, e nella dolce quiete domestica Moschino si addormentò. Le recenti abbuffate festive e il tepore del camino, certo conciliavano il sonno, e probabilmente i buoni sogni. Fu così che vecchio micio, proprio quel giorno, fece il sogno più strano di tutta la sua vita.
Si ritrovò a passeggio lungo la riva del mare, e dietro di lui c'era una lunga, interminabile fila di orme impresse sulla sabbia. Per quale strano motivo (i sogni sono sempre strani...), sapeva con certezza che quelle impronte erano i suoi passi nel passato.
Erano le orme delle sue zampe nel lungo cammino dalla nascita fino al tempo presente.
Tuttavia, se aveva quattro zampe, come mai di orme ce n'erano quasi sempre otto, cioè altre quattro di lato alle sue? Chi aveva camminato per tutto quel tempo, invisibile accanto a lui?
Un'altra faccenda attirava la curiosità di Moschino: le impronte erano otto quasi sempre, ma non sempre. In qualche tratto del percorso ne contava solo quattro, come se avesse fatto, qua e là, un po' di strada tutto solo.
Mentre la testa del vecchio gatto si riempiva di domande, gli venne incontro un micio tanto grande da oscurare il sole. Un micione bellissimo, bianchissimo, e con lo sguardo colmo di sconfinata dolcezza. Candido, maestoso e circondato da una luce tutta d'oro, sembrava una celestiale apparizione. La sua presenza riempiva a Moschino il cuore di un amore mai sperimentato. Non aveva dubbi: quello doveva proprio essere il Creatore! A dire il vero, il saggio nonno sapeva che l'aspetto del Creatore è un mistero, e se ci appare è la nostra mente che costruisce di Lui un'immagine, usando le poche conoscenze che possiede una mente terrestre. Quindi, forse, a un topolino apparirebbe come un candido topo gigante, e a un bambino come un uomo bellissimo in tunica bianca!
L'abbagliante micione sorrise e disse:
«Sì Moschino, quelle sono le orme della tua esistenza già trascorsa».
Moschino naturalmente non si stupì del fatto che il Creatore gli leggesse nel pensiero, e chiese: «Signore, perché le impronte sono doppie? Chi ha camminato al mio fianco per tutta la vita?»
«Io! Sempre!» affermò con tenerezza il Creatore.
Moschino rimase in silenzio qualche istante e poi domandò ancora, un po'perplesso: «Perché in alcuni tratti del percorso ci sono soltanto le orme di quattro zampe e non di otto, se Tu mi eri sempre accanto?»
«Quelli sono i momenti più difficili della tua vita, quando hai molto sofferto. Ricordi l'automobile che ti travolse e tu quasi perdesti la coda? O il tempo della povertà e della fame, quando eri così denutrito da non avere la forza di cacciare e di pescare per procurarti il cibo? O quando una malattia si prese tua moglie, ricordi il dolore della solitudine, vero?»
«Ma Signore, se ci sono le orme di un gatto soltanto nei momenti peggiori che ho trascorso, significa che mi hai lasciato solo proprio quando avevo più bisogno di te! Non capisco... »
Il Signore a quel punto diventò tanto luminoso che Moschino non riusciva più a guardarlo. E dentro la Luce, la Sua voce armoniosa come un canto disse:
«Mia amata creatura, in quel pezzo di strada ci sono le orme di un solo viandante, le Mie, perché ti stavo portando in braccio!»
Dopo quella risposta il Creatore raccolse tra le zampe Moschino ancora una volta, un attimo prima che si risvegliasse sulla comoda, vecchia poltrona, nel tepore della sua casa addobbata a festa.
I tre nipotini stavano chiassosamente svuotando le calze, e tiravano fuori caramelle al formaggio, bocconcini di pesce e divertenti gomitoli di lana.
«Nonno. nonno!» gridarono tutti insieme. «È passata la befana mentre dormivi! Ha volato sulle nostre teste facendo tanti otto nell'aria, poi ha staccato le calze dal camino ed è volata fuori dalla finestra!»
Moschino quasi non riusciva a mettere a fuoco la stanza, ancora abbagliato dalla luce del suo sogno e ancora avvolto nell'amore dell'abbraccio divino. Saltò giù dalla poltrona con un vigore tutto nuovo e andò dai cuccioli per leccare a turno i loro deliziosi musini. Non si era mai sentito tanto felice e leggero in tutta la sua vita. Ora non doveva più preoccuparsi per le creature che amava. Ora sapeva che non sarebbero mai state sole, e che durante le scalate sulle più aspre montagne del dolore, o nel guado dei fiumi più impetuosi della vita, chi li aveva creati, come un vero Padre, li avrebbe portati in braccio.
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